[Lab & Ricerca] I sindacati dalla difesa del salario alla difesa del “sistema”
giovedì 14 aprile 2011 | Scritto da Nicolò Cavalli - 1.730 letture |
Siamo decisamente lieti di riuscire a presentarvi una sintesi dei risultati di una ricerca, in corso di pubblicazione, che Lucio Baccaro, docente all’Università di Ginevra, ha recentemente raccolto nel suo paper “Similar structures, different outcomes: The Surprising Resilience of Corporatist Policy-Making in Europe.” I risultati raccolti ci sono apparsi robusti e soprattutto molto significativi. Un punto di partenza essenziale per chiunque voglia condurre un ragionamento sensato su ciò che accade nella società europea, e su come rispondere alle sfide contemporanee liberi dalle visioni abbacinanti del passato.
Con il termine corporativismo si intende quel sistema istituzionale, più o meno formalizzato, in cui grandi organizzazioni, cui viene riconosciuta la rappresentanza di intere categorie sociali, cooperano reciprocamente e con le autorità costituite per l’articolazione dei propri interessi, anche partecipando ai processi di creazione e implementazione delle politiche pubbliche.
E’ oggi largamente sostenuto che il corporativismo è stato un prodotto storico squisitamente novecentesco: nato all’alba del secolo breve, con il fascismo italiano come eminente esempio, la fine della contrapposizione tra i blocchi ne avrebbe sancita la fine, essendo, con il crollo del muro di Berlno, venute a cadere le ragioni d’esistenza della più compiuta strutturazione corporativa, la socialdemocrazia tedesca e scandinava, basata sulla contrattazione tripartita tra stato e parti sociali, quali sindacati degli imprenditori e dei lavoratori.
Nel suo articolo Similar Structures, Different Outcomes: Corporatism’s Surprising Resilience and Transformation, Lucio Baccaro, un dottorato all’Università di Pavia e uno al MIT prima di ottenere la cattedra di Macro-Sociologia all’Università di Ginevra, mette in discussione questo concetto di successo, secondo cui il «Corporativismo come modello di politica economica è stato in passato un’importante alternativa istituzionale al capitalismo liberale, ma è essenzialmente morto a causa degli effetti combinati della globalizzazione, dell’integrazione Europea, del cambiamento tecnologico e di una generalizzata offensiva dei datori di lavoro.»
Il suo studio, che sarà pubblicato nel 2011, analizza l’evoluzione delle relazioni industriali in 16 nazioni economicamente avanzate lungo un periodo di oltre 30 anni, dal 1974 al 2005, estrapolando da un ampio set di dati un “indice di corporativismo”, composto da due elementi tra loro complementari: una misura della contrattazione salariale tra imprenditori e sindacati dei lavoratori (ossia della misura in cui i salari corrisposti sono frutto di contrattazione) e una misura della partecipazione delle parti sociali ai processi di policy-making in tre aree principali: politiche macroeconomiche, politiche sociali e politiche riguardanti il mercato del lavoro.
Come mostrato dalla Figura 1, «C’è effettivamente stato un declino del corporativismo tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80, ma questo declino è stato seguito da una rinascita negli anni ’90.» Il corporativismo, insomma, non è morto: esso è piuttosto andato incontro ad una serie di rilevanti cambiamenti. «L’indice per il periodo che va dal 1974 al 1989, […] posiziona Belgio, Svezia, Austria e altri paesi scandinavi in testa; US, Canada, Francia, Regno Unito e Italia in fondo alla classifica, e la Germania in una posizione mediana. […] Tuttavia, il ranking per il periodo 1990-2005 è piuttosto differente. Due paesi, Italia e Irlanda, aumentano considerevolmente il proprio risultato [scalando rispettivamente 7 e 10 posizioni e divenendo il quinto e primo tra i paesi sindacalizzati, ndr], Australia e Svezia cadono sul fondo.»
Disaggregando l’indice corporativo nelle sue due componenti [Fig.2a e 2b], è sorprendente notare come un pressoché costante declino del coordinamento salariale tra imprenditori e associazioni dei lavoratori sia accompagnato da una contestuale ascesa della partecipazione dei sindacati ai processi di policy-making. Il nuovo corporativismo, nato a partire dagli anni ’90, con Italia e Irlanda quali suoi principali alfieri, è dunque un fenomeno molto differente da quello degli anni ’70, quello della sua maggiore fioritura, l’epoca d’oro del corporativismo: il nuovo corporativismo appare caratterizzato da una più spiccata istituzionalizzazione materiale del ruolo delle organizzazioni di categoria, proprio mentre la forza reale di tali organizzazioni va diminuendo, come è possibile notare valutando il generalizzato trend di forte calo della “densità sindacale” nei paesi analizzati («La densità sindacale è diminuita dal 64 al 56% in Irlanda tra il 1983 e il 1987, e dal 45 al 39% tra il 1984 e il 1992 in Italia.» Per densità sindacale si intende la quota di lavoratori iscritti a sindacati sul totale dei lavoratori occupati, esclusi i pensionati, ndr)
A questo punto, Baccaro si domanda in che misura tali mutate caratteristiche conducano ad esiti sostanzialmente differenti rispetto a quelli che hanno caratterizzato il sistema corporativo in passato: «Uno dei più robusti risultati nella letteratura quantitativa è quello secondo cui le caratteristiche istituzionali del sistema di relazioni industriali, in particolare la densità sindacale e la struttura di contrattazione collettiva centralizzata o coordinata, conducono ad una maggiore eguaglianza economica […] Il nuovo corporativismo degli anni ’90 ha effetti livellanti simili a quello precedente?»
Al termine di un’attenta analisi econometrica (e dei problemi statistici cui questa è sottoposta), Baccaro conclude che «Il nuovo corporativismo appare meno redistributivo rispetto a quello dell’età d’oro. Inoltre, mentre il corporativismo dell’epoca precedente non aveva alcuna relazione rispetto alla quota dei salari sul reddito nazionale, nel nuovo corporativismo i salari tendono ad aumentare a un ritmo minore rispetto alla produttività del lavoro.» Il che significa che il corporativismo nato a partire dagli anni 90 è caratterizzato da una redistribuzione del reddito dal lavoro verso il capitale, ossia da un aumento della competitività internazionale ottenuto tramite compressione dei salari.
In sintesi, quando si considera il periodo che parte dal 1990 e raggiunge il 2005, «L’effetto del corporativismo nella riduzione della diseguaglianza è circa tre volte più piccolo di quello del precedente periodo, 1974-1989.» La dimensione del welfare state rimane invece «Significativamente negativamente associato con la diseguaglianza e questa variabile sembra poter spiegare gran parte delle differenze tra i Paesi»: le nazioni che avranno mantenuto il più possibile inalterati i loro sistemi di welfare, spesso nati dalla collaborazione tra forze sindacali e governi di colore socialdemocratico, saranno anche quelle in cui sarà stato minore l’aumento nella diseguaglianza sociale.
In conclusione, dunque, «L’analisi supporta le seguenti conclusioni: 1) che il policy-making corporativo non è morto, contrariamente a quanto previsto, ma che esso ha piuttosto vissuto una sorprendente risorgenza negli anni ’90; 2) che il nuovo corporativismo è meno concentrato sulla redistribuzione e più concentrato sulla competitività economica rispetto al corporativismo precedente.»
Il corporativismo dell’età d’oro era, infatti, un elemento fondamentale in un contesto di politiche di ispirazione keynesiana, volte alla piena occupazione della forza lavoro: «Evitando di usare completamente il proprio potere di mercato nella sfera della determinazione dei salari – spiega Baccaro – i sindacati dei lavoratori entravano in uno “scambio politico” con i governi, scambio che permetteva di ottenere una serie di riforme strutturali (come, ad esempio, l’espansione della spesa pubblica, la demercificazione dei servizi pubblici, eccetera) e maggiori livelli di eguaglianza economica rispetto ad altre economie capitaliste a comparabili livelli di sviluppo.»
Tuttavia, a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods (1971), il mutamento di una serie di condizioni e politiche macroeconomiche a livello internazionale (tra cui la politica reaganiana di alti tassi di interesse e la deregolamentazione sul controllo dei capitali) ha fortemente ridotto lo spazio di negoziazione a disposizione delle associazioni sindacali che, da un parte, si mostravano sempre meno in grado di far rispettare gli accordi sottoscritti e, dall’altra, venivano bypassate nei meccanismi di moderazione dell’inflazione, ottenuta non più tramite compressione dei salari ma attraverso politiche monetarie restrittive, pur se al costo di maggiori tassi di disoccupazione. Di fronte a tali circostanze, «I datori di lavoro hanno iniziato a percepire il coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori nella contrattazione collettiva nazionale e nelle politiche pubbliche non più come un inevitabile costo da pagare per la pace sociale e la stabilità economica, ma piuttosto come una costosa e inefficiente rigidità di cui ci si sarebbe potuti tranquillamente sbarazzare.»
La transizione verso un regime di tipo neo-liberale, secondo la dottrina del Whasington Consensus, condivisa da OCSE e Commissione Europea, tuttavia, richiedeva l’imposizione al corpo sociale di riforme che includevano «Non solamente moderazione salariale, come in passato, ma anche rettitudine fiscale (implicante una razionalizzazione del settore pubblico), liberalizzazione del mercato del lavoro, ristrutturazione dei sistemi di welfare. Queste riforme avrebbero ridotto molti benefici, ristretto le possibilità di elezione dei governi riformatori, e trasferito i rischi da stato e imprenditori verso lavoratori e cittadini […] Quei governi che, a causa della loro limitata forza parlamentare o elettorale, erano incapaci o indisposti ad approvare unilateralmente tutta quella serie di riforme, che era ad essi più o meno imposta da costrizioni economiche internazionali, trovarono nei patti corporativi una conveniente via per facilitare i processi di riforma delle politiche.
«I sindacati si trovarono di fronte alla spiacevole alternativa di acconsentire a queste contrattazioni macro-concessive o rifiutarsi totalmente di partecipare. Lo scambio politico come quid pro quo tra moderazione salariale e maggiore protezione sociale spariva virtualmente e la maggior parte dei budget pubblici erano troppo deficitari per permettere ai governi il pagamento di contropartite significative. Dove lo scambio continuò ad essere praticato (come in Irlanda e Finlandia), esso barattava moderazione dei salari per riduzioni fiscali, cioè misure volte a incentivare il consumo privato invece di quello pubblico.»
Che fossero motivati dalla volontà di rafforzare il proprio ruolo e la propria visibilità, dalla considerazione dell’interesse generale del paese o dalla razionale valutazione della mancanza di alternative credibili, sta di fatto che i sindacati si sono trovati a ratificare politiche che svantaggiavano le categorie che questi avrebbero dovuto rappresentare, spesso in cambio del semplice diritto alla partecipazioni ai tavoli dove le decisioni venivano prese, tentando di rendere più digeribili gli angoli più spigolosi di tali politiche, ma senza mai metterne in discussione la direzione fondamentale.
Allo scopo di legittimare l’accettazione di tali riforme, «In paesi come Irlanda e Italia, i sindacati dei lavoratori si sono affidati alla democrazia e al dibattito per coinvolgere i loro membri. In particolare, prima di firmare i vari patti, essi hanno organizzato assemblee sui luoghi di lavoro e referendum dei lavoratori, impegnandosi ad attenersi al risultato del voto della maggioranza», in questo modo marginalizzando le fazioni più radicali, caratterizzate da preferenze intense e maggiormente pronte alla mobilitazione, ma minoritarie. Allo stesso tempo, «E’ probabile che le procedure democratiche non solo abbiano aggregato preferenze predeterminate, ma anzi abbiano contribuito a plasmare le stesse. Il voto veniva preceduto da assemblee nelle quali i leader usavano vari argomenti, per lo più pragmatici, ma anche etico-morali, per spiegare perché occorreva prendere tali decisioni […] Questo processo di democrazia discorsiva […] favorì l’emergere di consenso verso riforme sgradevoli.» I sindacati, insomma, persa la legittimità “politica” delle loro scelte, derivante dal fatto che queste avevano in passato effetti positivi sulle categorie interessate (output legitimacy), si sono affidati ad un accrescimento della legittimità procedurale delle stesse scelte, ottenendo risposte positive dalla maggioranza dei lavoratori e così permettendo ai governi di attuare riforme estremamente delicate con la piena legittimità derivante dal consenso del corpo sociale.
«Come prezzo per la loro collaborazione, i sindacati hanno domandato, e spesso ottenuto, di essere protetti come istituzioni. Questo ha implicato che i membri principali dei sindacati, lavoratori di sesso maschile in età avanzata, sono stati meno toccati dai tagli e dalle liberalizzazioni, ma al prezzo di riversare i costi su altre categorie; come giovani lavoratori e lavoratori a tempo determinato. Questa strategia sembra incapace di arrestare, per non dire invertire, la crisi organizzativa dei sindacati. […] Essi rimangono attori importanti per ogni piano di rivitalizzazione di politiche egualitarie. Tuttavia, è improbabile che i sindacati possano mostrarsi all’altezza del proprio potenziale se non saranno in grado di ricostruire il proprio potere dove questo conta di più: tra i lavoratori.»
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