[Eurotradimenti] L’Europa vinta dalla “economia comunista di mercato”
giovedì 14 aprile 2011 | Scritto da Alain Supiot - 1.560 letture |
Labouratorio sa che il destino dei profeti è quello di predicare ad un auditorium di sordi. Alain Supiot è uno dei maggiori giuslavoristi francesi. Tre anni fa, ha scritto questo articolo per Labouratorio. Abbiamo aspettato prima di pubblicarne un estratto, affinché l’evolversi dei fatti mettesse in luce la differenza tra un profeta e un lucido intellettuale. I primi li lasciamo agli altri, i secondi, quelli validi, li trovate sempre e solo su questo sito.
Tutti coloro che speravano che l’Europa potesse incarnare su scala mondiale un “modello sociale” che mettesse le libertà economiche al servizio degli uomini, attendevano con impazienza le due sentenze che la Corte ha stabilito l’11 e il 18 ottobre (2008, ndr) sui casi Viking e Laval. Questi casi ponevano in effetti la questione di sapere se i sindacati avessero o no il diritto di agire contro imprese che utilizzano le libertà economiche garantite dal trattato di Roma per abbassare i salari o peggiorare le condizioni di lavoro.
Nel caso Viking, una compagnia finlandese di trasporto di passeggeri desiderava fare passare uno dei suoi traghetti con la compiacenza estone, in modo da sottrarsi al contratto collettivo finlandese. Il caso Laval riguardava una società di costruzione lettone, che impiegava in Svezia dei salariati lettoni e si rifiutava di aderire al contratto collettivo svedese. In entrambi i casi, i sindacati avevano ricorso con successo a diverse forme di azione collettiva (scioperi di solidarietà, blocchi e boicottaggi) per costringere le imprese a rispettare tali contratti.
La Corte Europea è stata interrogata sul punto di sapere se queste azioni, lecite nel diritto nazionale, non fossero illegali per il diritto comunitario, nella misura in cui esse limitavano la libertà dell’impresa di sottoporsi alle regole sociali meno favorevoli ai salariati. Fondamentalmente, la Corte ha dato ragione alle imprese. […]
Dal momento che il diritto comunitario impone alle imprese che portano dei lavoratori in un altro Stato un certo numero di regole sociali minimali, la Corte ha deciso che un’azione collettiva volta a ottenere, non solo il rispetto di tali minimi, ma l’uguaglianza di trattamento con i lavoratori di quello Stato, costituisce un intralcio ingiustificato alla libera prestazione di servizi. Il caso Viking afferma invece che il diritto a ricorrere a delle bandiere di comodo deriva dalla libertà di stabilimento garantita dal diritto comunitario, e che la lotta che i sindacati portano contro tali bandiere di comodo su scala internazionale è dunque di natura atta a portare danno a tale libertà fondamentale.
La corte riconosce certo che il diritto di sciopero è “parte integrante dei principi generali del diritto comunitario”. Ma essa vieta di servirsene per obbligare le imprese di un paese A che operano in un paese B a rispettare integralmente le leggi e i contratti collettivi di quel paese B. Salvo “ragioni imperiose di interesse generale”, i sindacati non devono fare nulla che possa essere “suscettibile di rendere meno attraente, ossia più difficile” il ricorso alle delocalizzazioni o alle bandiere di comodo.
Questa giurisprudenza getta una luce sul corso preso dal diritto comunitario. Si sapeva già che l’evoluzione di tale diritto fuggiva quasi completamente ai cittadini, tanto in ragione dell’assenza di un veritiero scrutinio popolare su scala europea, quanto della capacità degli Stati di schiacciare le resistenze elettorali quando esse si esprimono tramite referendum nazionali. […] I dirigenti dei paesi dell’Unione Europea sono giunti ad aggirare in successione il rigetto del trattato di Maastricht da parte degli elettori danesi, del trattato di Nizza da parte degli irlandesi e più recentemente il trattato costituzionale da parte degli elettori francesi e olandesi. Si può dunque ormai considerare che in materia europea i risultati di uno scrutinio non si impongono se il responso non è favorevole alla volontà dei dirigenti che l’organizzano. L’apporto dei casi Laval e Viking è di sottrarre anche il diritto comunitario agli scioperi e ad altre forme di azione sindacale suscettibili di intralciare la sua messa in opera. A tale fine, le regole di commercio sono dichiarate applicabili ai sindacati, a dispetto del principio di “libero esercizio del diritto sindacale”, come garantito dalla convenzione 87 dell’ILO.
Il rispetto di questa libertà è però una dimensione essenziale della democrazia. Nel passato, le politiche sociali dei regimi corporativi o comunisti hanno potuto essere più generose o ambiziose di quelle delle democrazie occidentali. Ma il segno di questi regimi dispotici è stato quello di imporre dall’alto una visione del bene comune che non poteva soffrire alcuna contestazione, e di assoggettare i sindacati al rispetto di un dogma economico che postulava la giustizia dell’ordine prestabilito. La proprietà delle democrazie è stata al contrario di ammettere che la giustizia sociale non poteva solamente essere imposta dall’alto, ma procedeva anche dal basso, dal confronto tra gli interessi dei salariati e dei datori di lavoro. Da qui il riconoscimento e la protezione, non solo formale, ma reale, della libertà sindacale e del diritto di sciopero, che permettono ai deboli di obiettare ai forti la propria rappresentazione della giustizia.
Tale consacrazione giuridica del diritto di sciopero nelle democrazie occidentali non è tuttavia stata acquisita che all’indomani della seconda guerra mondiale. Ciò significa che questa rimane fragile nell’Europa dell’ovest e non ha alcuna radice nell’Europa dell’est. Nel contesto dell’Europa allargata, non è dunque così stupefacente che il giudice comunitario, contrariamente a ciò che aveva deciso qualche anno prima in materia di contratti collettivi, abbia deciso di subordinare le libertà collettive dei salariati alle libertà economiche delle imprese.
Si può affermare ciononostante che queste sentenze contribuiscono a spingere un po’ di più l’Europa su di una pista pericolosa. I meccanismi giuridici propri alla democrazia, che si tratti di libertà elettorale o di libertà sindacale, permettono di metabolizzare le risorse della violenza politica o sociale e di convertire i rapporti di forza in rapporti di diritto. Il blocco progressivo di tutti questi meccanismi su scala europea potrà mettere alla lunga generare dei ripiegamenti identitari o corporativi e della violenza.
Come ha recentemente osservato Perry Anderson, l’Europa è così quasi sulla strada di realizzare i progetto costituzionali di uno dei padri del fondamentalismo economico contemporaneo: Friedrich Hayek. Hayek ha lungamente sviluppato nella sua opera il progetto di una “democrazia limitata”, nella quale la ripartizione del lavoro e delle ricchezze, così come la moneta, fossero interamente sottratti alla sfera politica e agli alea elettorali […] Favorevole all’instaurazione di un salario minimo garantito, egli provava un vero e proprio odio verso il sindacalismo e più in generale verso tutte le istituzioni fondate sulla solidarietà, poiché vi vedeva la risorgenza della “idea atavica di giustizia distributiva”, che non può condurre che alla rovina “dell’ordine spontaneo del mercato” fondato sulla verità dei prezzi e la ricerca del guadagno individuale. Secondo lui il popolo, nelle società occidentali, era divenuto incapace di comprendere le leggi del mercato. Preconizzava dunque di “detronizzare la politica” tramite dispositivi costituzionali che “interdicano a chiunque di fissare la scala di benessere nei diversi gruppi e tra gli individui”. Non credendo all’ “attore razionale” in economia, Hayek si affidava alla selezione naturale delle regole e delle pratiche, attraverso la messa in concorrenza dei diritti e delle culture su scala internazionale. Secondo lui, gli adepti del darwinismo sociale avevano avuto il torto di focalizzarsi sulla selezione degli individui geneticamente più adatti, processo troppo lento per essere preso in considerazione, “mentre non consideravano l’evoluzione – decisiva – attraverso la selezione di regole e pratiche”. Questo favore per il darwinismo normativo e questo suo non fidarsi della solidarietà sindacale ritrovano evidenza nelle sentenze Laval e Viking, che gettano le basi di una messa in concorrenza dei diritto sociali dei paesi membri, sotto la sola riserva di rispettare le disposizioni minimali della direttiva del 1996.
L’influenza politica del pensiero di Hayek è stata e resta considerevole. Essa ha fornito le basi dogmatiche della rivoluzione neoconservatrice di cui il Regno Unito è stato e resta la punta avanzata in Europa. Comunque, il successo attuale delle idee di “democrazia limitata” e di “mercato dei prodotti legislativi” procede innanzitutto dalla conversione dell’Europa dell’Est e della Cina all’economia di mercato. Con la loro abituale arroganza, gli Occidentali hanno visto in tali avvenimenti, e nell’allargamento della Unione Europea che ne è scaturito, la vittoria finale del loro modello di società, mentre hanno in realtà dato vita a ciò che i dirigenti cinesi chiamano oggi “l’economia comunista di mercato”. […]
Edificato sulla base di ciò che capitalismo e comunismo avevano in comune (l’economismo e l’universalismo astratto), questo sistema ibrido impronta al mercato la messa in concorrenza di tutti contro tutti, il libero scambio e le massimizzazione delle utilità individuali, e al comunismo la “democrazia limitata”, la strumentalizzazione del diritto, l’ossessione della quantificazione e la deconnessione totale dei dirigenti dai diretti.
Questo offre alle classi dirigenti di tutti i paesi la possibilità di arricchirsi in maniera colossale (cosa che non permetteva il comunismo) allo stesso tempo desolidarizzandosi completamente dalle sorti delle classi medie e popolari (il che non era permesso dalla democrazia politica o sociale degli Stati welfaristici). Una nuova Nomenklatura, che deve una buona parte della sua fortuna improvvisa alla privatizzazione dei beni pubblici, si serve così della liberalizzazione dei mercati per esonerarsi dal finanziamento dei sistemi di solidarietà nazionale.
Questa “secessione delle élites” (secondo la felice espressione di Christpopher Lasch) è condotta tramite un nuovo tipo di dirigenti (alti funzionari o vecchi responsabili comunisti o militanti maoisti riconvertitisi al business) che non hanno più granché a che fare con l’imprenditore capitalista tradizionale. All’est come all’ovest, un buon numero di questi dirigenti, formatisi alla scuola del marxismo-leninismo o del maoismo, hanno sposato con fervore la tesi della deregolamentazione dell’economia e della privatizzazione dei beni pubblici, di cui essi sono stati i primi organizzatori e beneficiari.
In Francia in particolare, dove la figura dell’oligarca ha potuto prosperare grazie alla privatizzazione delle imprese pubbliche. La loro linea di condotta è stata espressa poco tempo fa con molta franchezza e chiarezza da un ex vice-presidente di Medef, Denis Kessler: occorre “disfare metodicamente il programma del Consiglio Nazionale della Resistenza”. In testa a questo programma figuravano “lo stabilimento di una democrazia allargata (…) la libertà di stampa e la sua indipendenza dalla forza del denaro (…) l’instaurazione di una vera democrazia economica e sociale, implicante la fine del controllo della direzione dell’economia da parte delle grandi feudalità economiche e finanziarie (…) la ricostituzione, nelle sue libertà tradizionali, di un sindacalismo indipendente, dotato di un largo potere nell’organizzazione della vita economica e sociale”. Niente di tutto ciò è in effetti compatibile con l’economia comunista di mercato. Ma fino a che punto quest’ultima conduce a “disfare” i diritti e i principi enumerati dal programma del CNR?
La questione si pone in maniera particolarmente acuta trattandosi della dignità umana, alla quale questi programmi si riferiscono per fondare il diritto dei lavoratori ad una remunerazione decente. Il principio di dignità in effetti non è un diritto fondamentale tra gli altri, ma il principio fondatore di un ordine giuridico civilizzato, e da questo discendono diritti e altrettanti doveri per tutti gli essere umani. […] Se la dignità è così chiamata all’uscita dalla “guerra dei trent’anni” che aveva sconvolto l’Europa e il mondo dal 1914 al 1945, è perché gli orrori di quella guerra aveva mostrato dove conduceva il fatto di rilegare l’uomo allo stato di “materiale umano”. Mentre l’ “Uomo” delle dichiarazioni dei diritti ereditato dai Lumi era puro spirito, la nozione di dignità gli dona anche un corpo. E’ poiché questa è innanzitutto servita a fondare i diritti economici e sociali (diritto al lavoro, diritto alla sicurezza sociale) che volge ad assicurare a tutti delle condizioni di vita decente: a coloro che vivono del proprio lavoro, ma anche ai malati,agli infermi, agli anziani o ai disoccupati.
Il meglio che possa accadere nell’ordine giuridico al principio di dignità, è di dimorare nascosto da un’architettura di diritti e di doveri di cui è l’impronta e da cui discendono i suoi effetti giuridici positivi. Se il diritto sociale fissa per esempio un salario minimo ad un livello decente, non c’è più bisogno di parlare di dignità in questo campo. Se ne parla molto oggi, e ad ogni proposito, il che non è un buon segno. E, inoltre, se ne parla molto male, come di un diritto tra gli altri, che occorrerebbe conciliare con gli altri.
Riesumando in termini nuovi una delle sentenze anteriori, la Corte di Giustizia Europea afferma così nei casi Viking e Laval che “l’esercizio dei diritti fondamentali in causa, rispettivamente la libertà di espressione e di riunione così come il rispetto della dignità umana, non sono sottratti al campo di applicazione del dispositivo del trattato. Questo esercizio deve essere conciliato con le esigenze relative ai diritti protetti dal detto trattato e essere conforme al principio di proporzionalità.”
Dire che occorre “conciliare” la dignità dell’uomo con le libertà economiche dell’impresa (o con il diritto di sciopero o con non importa quale altro diritto individuale o collettivo) significa dire che la si può mettere in discussione quando il gioco vale la candela.
Le libertà economiche garantite dal Trattato possono giustificare in certe occasioni di trattare gli uomini come cani, di ricorrere alla tortura o a trattamenti degradanti?
E’ senza dubbio conforme alla dottrina law and economics (che, alla moda marxista, fa dei calcoli di utilità economica quali fondamento del diritto, e accorda un ruolo fondamentale all’idea di capitale umano), ma è certo contrario al senso profondo del principio di dignità, che fonda un ordine di valori irriducibili al valore monetario.
E che non ci si dica che la dignità così intesa ci porta ad una “bigotteria” contraria all’Illuminismo. E’ il padre degli Illuministi, il grande Kant stesso, che ce ne ha donata la definizione più celebre: “Nel regno dei fini tutto ha un PREZZO o una DIGNITA’. Ciò che ha un prezzo può facilmente essere rimpiazzato da qualche cosa che abbia un titolo equivalente. Al contrario, ciò che è superiore ad ogni prezzo, ciò che dunque non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità”.
L’idea di un valore che si sottrarrebbe alla quantificazione a trascenderebbe la valutazione monetaria è ovviamente irricevibile in un sistema di economia comunista di mercato. Un tale sistema riposa sul calcolo d’utilità e sull’equivalenza generale tra uomini e cose.
Il principio di dignità così come i diritti fondamentali della persona vi sono certo reclamati a grancassa, ma messi sullo stesso piano dei diritti e delle libertà economiche e monetarie. Postulare questa equivalenza è inevitabile in un ordine dogmatico che tratta gli uomini come del “capitale umano” e il diritto naturale come un prodotto in concorrenza sul mercato europeo delle norme.
Alain Supiot, 30 gennaio 2008.
Originariamente in http://www.journaldumauss.net/spip.php?article283
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