[Lab con Quelli della Rosa] Sulla Riforma e sugli scontri di piazza
venerdì 31 dicembre 2010 | Scritto da Redazione - 1.347 letture |
Labouratorio ha un sacco di amici. Se li è fatti in un anno di party trimalcionici e feste radical-chic in cui scandalizzava i benpensanti. Piano piano, ve li presenteremo tutti.
Quelli della Rosa è uno dei migliori amici di Labouratorio. Un sito web, un gruppo facebook e un progetto troppo bello per potere essere realizzato: far rinascere la Rosa nel Pugno. Dietro le quinte, un gruppo di ragazzi laici, liberali, radicali e socialisti.
Il primo nodo del Labouranetwork è servito.
Procediamo dunque al saccheggio dei loro contributi. Riproponiamo un bel pezzo sugli scontri di piazza del 14 Dicembre, e un’analisi inedita (che uscirà congiuntamente anche su quellidellarosa) sulla Riforma della Gelmini.
Entrambi i pezzi sono a firma di Guido Nicolosi_ radicale di orientamento liberalsocialista, è un sociologo. Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Sociali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, insegna Sociologia della comunicazione, dei media e delle nuove tecnologie.
[Violenza e scontri] perchè i fini non giustificano i mezzi ma sono i mezzi a prefigurare i fini.
Gli scontri di Roma del 14 dicembre avvenuti nell’ambito della manifestazione contro il Governo e contro la legge Gelmini obbligano tutti ad una seria riflessione. Ed è necessario che questa riflessione avvenga in fretta, prima che sia troppo tardi.
Premetto che mi sembra innegabile che le violenze sono state certamente propiziate da un numero relativamente ridotto di ragazzi, rispetto alla grande massa di studenti, ricercatori e altri manifestanti che erano presenti a Roma quel giorno. E premetto anche che sono profondamente convinto del fatto che ci sia stata una grossa responsabilità del Governo e della polizia riconducibile al modo “provocatorio” in cui è stato gestito l’ordine pubblico e la blindatura della città. Ma proprio queste premesse mi spingono a fare un passo ulteriore di riflessione.
E’ evidente che i relativamente “pochi” esagitati che hanno realizzato nefandezze ingiustificabili il giorno della manifestazione, lo hanno fatto sotto lo sguardo compiaciuto e con il sostegno implicito ed esplicito della gran parte della “piazza”. Spero di sbagliarmi, ma da ricercatore, vivo la mia vita quotidianamente tra gli studenti e sento i loro umori e la mia sensazione netta è che molti di loro e molti altri ancora siano, sostanzialmente, compiaciuti del delittuoso squadrismo che i manifestanti hanno realizzato tra le strade di Roma. Non c’è stata una chiara e netta condanna, né una presa di distanze e neanche un tentativo di isolamento. Questo aspetto è drammatico e foriero di ulteriori nefandi sviluppi.
Dall’altra parte della barricata (nel triste senso letterale del termine) è da mesi che il governo e i suoi lacchè (La Russa, Maroni, Gelmini, Emilio Fede, ecc.) stanno deliberatamente provocando verbalmente e militarmente i ricercatori e gli studenti e in generale chiunque voglia manifestare il proprio disagio economico e sociale.
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[Miti sfatati] La riforma Gelmini non è meritocratica
A voler essere ironici (e non è detto sia lecito vista la drammaticità della questione), vi è un paradosso politico, nelle vicende collegate alla cosiddetta riforma dell’Università.
Infatti, fa sorridere che un governo tanto clericale e baciapile in campo bioetico (ma ovviamente libertario sul versante dei comportamenti del Presidente del Consiglio) si mostri così evidentemente orientato verso una soluzione finale di tipo eutanasico nei confronti della lunga e triste malattia che attanaglia da anni la ricerca in Italia.
Fuor di metafora, il rischio è reale. Che l’Università pubblica italiana abbia bisogno di una scossa radicale è noto ed evidente. Il Paese avrebbe avuto bisogno di una vera riforma, in grado di trasformare l’Università da mastodontico ammortizzatore sociale per studenti e docenti precari in un sistema realmente competitivo, in grado di selezionare la classe dirigente. Ma le riforme a costo zero o, come nel caso della riforma appena licenziata dal Parlamento, a saldo negativo, nascondono insidie letali.
Ci si dovrebbe chiedere a chi può giovare la dolce morte dell’Università pubblica (perché di questo si tratta) che la legge Gelmini ha decretato. Parliamo di un sistema fondamentale per il rilancio culturale ed economico del nostro Paese (Obama docet).
Che sia chiaro, non intendo sostenere che l’unico problema dell’Università italiana sia quello dei finanziamenti. Aumentare il finanziamento di un sistema che utilizza male le sue risorse significa certamente legittimarne la disfunzionalità con scarsi effetti sulla qualità.
D’altronde, se è certamente vero che il nostro “sistema ricerca” è sottofinanziato, è anche vero che il grosso nodo rimane quello della drammatica carenza dei finanziamenti privati.
Infatti, se compariamo gli investimenti pubblici in ricerca del nostro Paese (in rapporto al PIL) con quelli degli altri paese europei (mi riferisco inparticolare agli anni precedenti ai tagli draconiani di Tremonti) il divario si annulla in alcuni casi e si riduce parecchio in altri. Dunque, mancano finanziamenti, in particolare quelli privati, però non può essere nascosto il fatto che i soldi che ci sono vengono spesi malissimo.
Le ragioni della “latitanza” dei privati sono diverse, a partire da una specificità del tessuto imprenditoriale italiano caratterizzato prevalentemente da piccole e medie imprese, poco propense a innovare. La ricerca, infatti, costa e il ritorno non è mai certo, specie del breve periodo.
Le piccole aziende spesso non hanno la forza economica necessaria per sobbarcarsi questo rischio. Ma dobbiamo anche confrontarci con un ritardo culturale della borghesia imprenditrice italiana (il caso FIAT è esemplare). Si fa fatica a comprendere che la ricerca ha una ricaduta economica fondamentale nella società della conoscenza.
In Italia, la bilancia dei pagamenti nel campo della conoscenza è in netto disavanzo. Importiamo molta più conoscenza di quella che riusciamo ad esportare (brevetti, tecnologie, ecc.). Inoltre, spendiamo molto per formare ottimi ricercatori, che poi vanno all’estero a produrre beni che saremo costretti ad importare. Un sistema folle.
All’interno del sistema ricerca, invece, i soldi sono spesi male perché vi è una scarsa “tensione” meritocratica e selettiva. Il punto è che la legge Gelmini non fa nulla per risolvere entrambi questi problemi, anzi li esaspera: riduce i finanziamenti pubblici e non incentiva quelli privati; introduce a parole il merito, ma nei fatti disincentiva la competizione perché frustra le aspettative di carriera e di crescita economica dei ricercatori a vantaggio del consolidamento del potere dei baroni (rettori e professori ordinari).
Facciamo alcuni esempi riferiti all’Università.
I ricercatori strutturati a tempo indeterminato (che sono circa 25000), stanno protestando, dichiarandosi indisponibili ad assumere incarichi didattici non previsti per legge. Bene, le Facoltà rischiano il collasso perché, impropriamente, coloro che dovrebbero svolgere solo compiti di ricerca hanno dovuto assumere, per il bene dell’Università, un ruolo di “supplenza” volontaria e non retribuita, che rappresenta oggi circa il 40% della didattica complessiva prodotta.
Come compenso, la legge Gelmini conferma la loro messa ad esaurimento, taglia i loro stipendi e sostanzialmente elimina le già scarse possibilità di carriera (blocco del turn over).
I ricercatori non strutturati (dottorandi, assegnisti, contrattisti, ecc.), invece, rischiano semplicemente l’espulsione dal sistema. Infatti, il meccanismo della tenure track introdotto (tre anni+ tre anni e poi passaggio ad associato), di per sé positivo, senza un adeguato finanziamento rischia di essere perverso e disastroso.
Intendo dire che se un Dipartimento conferma per merito e per ben 6 anni un ricercatore, poi deve potere assumerlo. Qui, invece, rischiamo di creare precari che, dopo sei anni, anche se bravi, dovranno andarsene comunque a casa. All’estero, i dipartimenti devono accantonare un budget in anticipo per strutturare i bravi ricercatori in regime di tenure track. Da noi la Gelmini (Tremonti) non ha previsto nulla e il taglio dei fondi non fa presagire nulla di buono.
I concorsi: la Gelmini si vanta di avere reintrodotto i concorsi nazionali. Falso! E’ stata introdotta l’abilitazione nazionale, senza numero chiuso e quindi non particolarmente selettiva, per i soli professori (associati e ordinari).
Ma le chiamate saranno locali. Cioè, un ricercatore si prende l’abilitazione e poi aspetta (ma dopo quattro anni l’abilitazione “scade”) che una Facoltà lo “chiami”, mediante un’assunzione diretta e discrezionale. Nessun criterio meritocratico da applicare. Una pacchia per i baroni locali!
La svolta meritocratica avrebbe dovuto imporre, ancor prima della stessa legge di riforma, il rilancio dell’agenzia di valutazione nazionale, che già esiste, mediante la definizione di criteri chiari, condivisi e vincolanti per misurare le performance dei ricercatori, dei docenti e delle strutture. E avrebbe dovuto subordinare buona parte dei finanziamenti (non solo il 7%, come fa la legge Gelmini) a queste valutazioni.
Il nepotismo si sconfigge creando le condizioni per la sua disincentivazione. Io non assumo un idiota raccomandato se questo mi fa perdere i fondi al dipartimento! Così si fa nei paesi del mondo sviluppato.
La protesta dei ricercatori allora è sacrosanta e vitale. Quasi sempre condotta dai più giovani che sono i meno rassegnati a ratificare la morte definitiva dell’Università. Sono loro i più colpiti e, con essi, si colpiscono le motivazioni ideali e le passioni del futuro della ricerca. Infatti, la riforma scarica su ricercatori e precari i costi di questa macelleria sociale che si sta tentando di spacciare per “riforma del sapere”.
Ma non si può pensare di demandare solo ai ricercatori e agli studenti il compito di risolvere la questione. Colpisce la carenza di proposte alternative da parte dei partiti di opposizione.
Si avverte, anche in questa occasione, l’assenza dal panorama politico italiano di una compagine che sappia laicamente coniugare i valori storici del socialismo con la parte migliore della tradizione liberale.
Proprio sul tema del rilancio dell’innovazione e del sapere, la sinistra italiana potrebbe trovare un campo fertile per l’elaborazione di un nuovo discorso politico che sia riformista e radicale allostesso tempo. Il partito socialista francese, ad esempio, sta facendo del tema dell’istruzione una questione fondamentale per il rilancio del suo destino politico e di quello della nazione.
Tra l’altro, l’assenza di proposte alternative da parte dei partiti rischia di spingere coloro, e sono tanti, che aspettano una radicale innovazione del sistema, tra le braccia di chi vuole riproporre le solite battaglie retrò (università gratuita, accessi liberi, ecc.).
Queste battaglie, pur condivisibili e accattivanti dal punto di vista ideale, dati alla mano, spesso rivelano “conseguenze non volute” ed “effetti collaterali” devastanti che vanno nella direzione esattamente opposta a quella auspicata: i poveri finanziano i ricchi, i meritevoli sono bloccati dai meno meritevoli, ecc.
Per non parlare dei rischi insiti nella diffusione di una certa nostalgia per quelle vecchie battaglie corporative che hanno avuto come principale sbocco le diverse ope legis con cui sono state poste le premesse per le diverse disfunzioni che, a partire dagli anni ’80, ci hanno accompagnato fino ad oggi (blocco assunzioni, selezione limitata e invecchiamento senza ricambio del personale docente, ecc.).
I casi di efficace rilancio del compito storico dell’Università in Europa ci sono. E, come dimostrano le esperienze del Regno Unito o dei Paesi Bassi, si sono fondati, tra l’altro, sulla matrice prevalentemente pubblica della ricerca e dell’alta formazione; sull’introduzione di criteri e incentivi orientati ad una maggiore meritocrazia e competitività del sistema; sulla riduzione della burocrazia nelle procedure di funzionamento (concorsi, finanziamenti, ecc.); sulla maggiore accentuazione della separazione tra le strutture di ricerca e quelle prevalentemente orientate alla formazione; su una maggiore attenzione nella selezione dei docenti e degli studenti.
Una riforma realmente liberale, come prima cosa, avrebbe abolito il valore legale del titolo distudio. Questo avrebbe costretto le Università a competere tra loro per accaparrarsi i migliori studenti e docenti/ricercatori, offrendo migliori servizi e incentivi.
E non solo le Università pubbliche ne avrebbero tratto giovamento. La concorrenza fa bene anche alle private che, in Italia, invece di competere sul mercato preferiscono chiedere, immediatamente accontentate, più finanziamenti allo Stato.
Vorrei ricordare, infatti, che le performance sul piano della qualità e quantità della ricerca delle Università private italiane sono spesso disastrose. Nelle classifiche mondiali le Università italiane che si piazzano meglio sono quelle pubbliche.
C’è poi la spinosa questione delle tasse. Aumentare il finanziamento privato dell’Università pubbliche passa anche dall’innalzamento corposo delle tasse d’iscrizione. Oggi, troppo spesso, le famiglie sono disposte a spendere migliaia di euro per cellulari, moto e auto, ma poi pretendono un futuro per i propri figli a costo zero. Ma l’aumento delle tasse non deve in nessun modo essere penalizzante per i meno abbienti.
Deve essere previsto un piano straordinario di investimento, che finanzi il sistema dei prestiti agli studenti. Ovvero, lo studente ottiene un prestito che restituirà nel tempo (anche venti anni), senza interessi, con una piccola trattenuta in busta paga, solo se la laurea lo aiuterà a trovare un lavoro con un livello retributivo significativo. Minore il livello retributivo,minore la restituzione. Così si preleva “a valle” del sistema, facendo pagare di più chi diventa più ricco, riducendo le discriminazioni sociali “a monte”.
Inoltre, questo meccanismo incentiva le Università a migliorare le performance nella collocazione dei laureati e sprona gli studenti ad accelerare gli studi (più stanno e più pagano).
Ma tutte queste (e tante altre) misure la legge Gelmini non le prevede. Mentre ne prevede molte finalizzate ad aumentare il potere dei baroni che, infatti, in piazza non c’erano. Sarà un caso che rettori e professori ordinari hanno contrastato duramente la protesta?
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