[Rivoluzionismi] Socialismo e guerra civile
mercoledì 18 gennaio 2012 | Scritto da Tommaso Gazzolo - 4.305 letture |
Un grande saggio. Perchè riconosce la radice intimamente rivoluzionaria del Socialismo, senza scindere il legame con la sua capacità riformatrice (e quanto è necessario, in un paese che ha prodotto i Lavitola, i Sacconi e tanti altri personaggi oltre il limite del folklore, tornare a parlare dell’essenza delle cose). Perchè coglie un aspetto profondo del punto di rottura del momento storico che stiamo vivendo. E perchè indica una direzione che è un progetto politico di libertà e di emancipazione. Lui si chiama Tommaso Gazzolo. Ricordatevelo.
1. Riformismo e concezione critico-pratica.
Il socialismo – e, più in generale, la filosofia della sinistra europea – ha aderito, nel corso dell’ultimo scorcio di secolo, ad una prospettiva riformista ed ha posto fine ad ogni possibilità di teoria politica rivoluzionaria. Ciò significa che il socialismo si è rivelato essere solo la bandiera sotto cui si cela un liberalismo democratico? Sotto cui si cela l’ideale di una “sinistra borghese”? Di quella che Mondolfo chiamava “psicologia del trafficante”? Sotto cui, in definitiva, si resta solidali – e, cioè, conformisti – al mondo che ci è dato?
Il socialismo eviterà tutto questo soltanto mantenendo ferma la propria concezione critico-pratica della storia. A differenza del riformismo liberal-democratico o cattolico, quello socialista si deve sempre determinare a partire dal momento storico, il quale è compreso e pensato sempre in termini rivoluzionari.
Sebbene politicamente riformista, la decisione storica su cui il socialismo si fonda non può mai limitarsi a porsi come scelta entro un ambito di possibilità date. Diversamente, quella decisione deve sempre pensarsi come attuazione di libertà, ossia come determinazione nella storia – la quale è, dialetticamente, passaggio ad un sempre maggior grado di libertà.
In questo senso, il “riformismo” socialista è sempre, dal punto di vista autenticamente storico, rivoluzionario, nel senso che la sua decisione è libertà, e non scelta: è negazione del mondo, del determinato, è cioè liberazione dall’essere-dato. La libertà – come spiega il maggior interprete di Hegel – non è una scelta tra due dati, ma la negazione di ciò che è dato, di ciò che già è, è la sua soppressione.
Ciò che determina, pertanto, il socialismo non è una concezione politica rivoluzionaria, ma la concezione rivoluzionaria della storia. Non è il suo metodo ad essere dialettico, ma è la storia che è dialettica, che implica la negatività, la soppressione, nel suo svolgersi. Anche laddove, pertanto, esso si presenti riformista sul piano politico, il partito socialista deve pensare la storia in senso critico-pratico, che è la condizione essenziale per realizzare la libertà come emancipazione (e senza la quale la libertà è soltanto scelta).
Nel corso dell’ultimo secolo è stato superato non il procedere dialettico della storia, ma la teoria rivoluzionaria che, sul piano politico, aveva tentato di pensarlo concettualmente. La fine del marxismo come teoria politica rivoluzionaria non ha nulla a che vedere, pertanto, con la struttura rivoluzionaria – ossia negativa, come possibilità di libertà – della storia.
La storia non cessa di presentare punti di rottura, «momenti storici», quando il passato si compie interamente ed il suo istante successivo non può – pur pensato e determinato dallo stesso passato – che presentarsi come sua opposizione e negazione. Questo è il senso autentico del rovesciamento della praxis. Il presente – ad un dato punto – diventa «storico» perché in esso penetra l’avvenire per mezzo del passato, del già compiuto.
Quella che comunemente viene definita la fine delle “ideologie” non coincide con il compimento della storia – ossia con la fine della negazione dialettica e, perciò, della libertà -, ma con la fine della possibilità politica di pensare l’avvenire come progetto – ossia con la fine delle “teorie rivoluzionarie” (ciò dipende essenzialmente dall’unità del mondo, ossia dalle condizioni internazionali. Ma, su questo punto, occorre rinviare altrove la spiegazione). Non è la penetrazione dell’avvenire in seno al presente che si è spezzata, ma l’avvenire-progetto, ossia la sua comprensione in termini politici. La “rivoluzione” è finita come progetto d’azione, e non come determinazione della storia: ciò che si è perduto, è la «trasformazione soggettiva», la capacità di dirigere le masse a compiere azioni rivoluzionarie, ad essere disposte a rischiare la morte per l’avvenire.
Ciò significa che non vi è più possibilità, per un partito, di essere politicamente rivoluzionario, di possedere un progetto appropriato rivoluzionario. Ma non per questo un partito deve privarsi della “mentalità rivoluzionaria”, ossia della concezione critico-pratica della storia, della comprensione e del possesso del “momento storico”.
La fine della possibilità di pensare politicamente la rivoluzione significa che, di fronte al “momento storico”, non siamo in grado di possedere in senso politico l’avvenire: di convincere le masse ad un’azione il cui senso non è presente immediatamente, ora e qui, ma è presente solo se compreso attraverso l’avvenire. Come dunque mostrare quell’avvenire-presenza, se la “rivoluzione” non è più in grado di indicarlo, di progettarlo? Attraverso la guerra civile.
2. Che cos’è la guerra civile.
Il concetto di guerra civile, per lungo tempo trascurato, è ancora oggi definito e pensato a partire dal riferimento allo Stato, come conflitto interno alla sua unità politica. Si tratta di una definizione “classica”, dipendente dalla teoria dello Stato moderno come unità politica sovrana tipica della filosofia politica secentesca e compiuta nella teoria di Hobbes. Dove c’è Stato non c’è guerra civile, dove c’è guerra civile non c’è Stato. Anche nel marxismo, la definizione di “guerra civile” riflette un’analoga dipendenza dal concetto di Stato. La definizione della società borghese come “società a guerra civile permanente” (P. I. Stučka) presuppone infatti una concezione dello Stato inteso, secondo le parole di Engels, quale “potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ “ordine”, ossia dello Stato come “il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi” (Lenin).
Eppure la fine della forma politica dello Stato-nazione, il “collasso” dei concetti “classici” della politica moderna, mostrano oggi l’inadeguatezza di quella definizione negativa. È improprio continuare a pensare la guerra civile a partire da una prospettiva, quale quella dello Stato, che non significa più.
Che cos’è, dunque, la guerra civile? È davvero una “violenza intestina”? Comprenderne l’autentico significato implica, prima di tutto, definirne la costante fenomenologica, che è l’irregolarità. La guerra civile è fine delle opposizioni tipiche dell’ordine politico, dei sistemi di “segni” che consentono di separare e distinguere l’amico dal nemico: la fine delle uniformi, delle divise, degli eserciti regolari, della chiara differenza tra ciò che è legale e illegale. Tutto ciò, tuttavia, nasconde l’originario senso dell’irregolarità. Quando Hobbes parla della guerra civile, egli si riferisce sempre ad una “situazione deviata”, in cui “tutto l’ordine delle cose è messo sottosopra”. Commenta Schmitt: “nella guerra civile nessun uomo può comportarsi normalmente”. È in questo senso specifico che dobbiamo capire l’irregolarità.
Essa non significa tanto che, a causa della guerra civile, non ci si possa comportare normalmente, quanto, piuttosto, viceversa: è l’impossibilità, in una data situazione, di comportarsi “secondo la media”, “normalmente”, che determina la guerra civile. Per guerra civile si deve perciò intendere la fine del piano della “situazione normale” in un dato ordinamento. La guerra civile come “irregolarità” si riferisce, pertanto, in primo luogo alla nozione di “regolarità” come “normalità”, “situazione media”.
La società, con le sue “norme”, presuppone sempre “una strutturazione normale dei rapporti di vita” (Schmitt): l’ordine sociale – il suo “progetto” normativo – rimanda sempre, per il proprio senso, a concetti di “normalità” che non determina esso stesso, ma che presuppone. Vale la pena riportare il passo di Schmitt:
“Una regolamentazione legislativa presuppone concetti di normalità del tutto indipendenti da essa: al punto che, in loro mancanza, la regolamentazione stessa diventa del tutto incomprensibile e non si può assolutamente parlare neppure di «norma». […] La normalità della situazione concreta, regolata dalla norma, e del tipo concreto da essa presupposto, non è quindi soltanto un presupposto esterno della norma, tale da non dover essere preso in considerazione dalla scienza del diritto, bensì un carattere giuridico essenziale, interno, della validità delle norme ed anzi una definizione normativa della norma stessa”.
Si tratta di qualcosa di molto semplice. Se, ad esempio, esiste una norma che reprime il “vagabondaggio”, essa presuppone – per il proprio senso – che la “situazione normale” entro la società sia costituita da un rapporto fisso tra persona e luogo (il “domicilio”). Oppure: le regole che disciplinano la posizione di ciascun posto a sedere in uno stadio, implicano – per avere un qualche significato – che allo stadio ci si rechi per assistere ad una manifestazione sportiva: essi infatti in tanto hanno senso, in quanto organizzano una regolare “veduta” del campo per ciascuno. Se, tuttavia, anche solo per uno “spettatore” ogni dieci recarsi allo stadio significasse “normalmente” non assistere ad una partita, bensì picchiare il proprio vicino, le norme sui “posti a sedere” non avrebbero alcun senso: non devo sedermi ordinatamente per fare a bastonate, non ho bisogno di “vedere” il campo. Esempi del genere possono farsi pressoché per ogni regola presente all’interno di una società (famiglia, lavoro, sicurezza, et cetera).
La guerra civile è dunque l’espressione del punto di frattura di quella rete di presupposti di senso. È il punto in cui la “normalità” smette di possedere una funzione semantica rispetto alla “norma”: vivere “normalmente” diventa impossibile, e ciò provoca la fine del senso delle norme che regolano la vita sociale. La guerra civile deve essere definita, di conseguenza, come rottura delle strutture di senso proprie di una data società, del “codice” che ne consente la decifrazione.
Per tale ragione, essa non coincide necessariamente con uno stato di guerra, e tantomeno con fenomeni quali la “rivolta” o “insurrezione”, i quali costituiscono negazioni della normatività della norma, mentre la guerra civile nasce dal collasso della normalità della norma.
È la mancata distinzione tra la prospettiva della “normatività” e quella della “normalità” che ha reso difficile sino ad oggi delineare una teoria giuridica “pura” della guerra civile. Del resto, lo stesso ordinamento giuridico tende sempre a presentare ciò che già è guerra civile come “disordine” e di pensare il fatto che masse di individui non possano più “vivere normalmente” in termini di integrazione, “anomia” sociale e polizia. Così, tuttavia, si confonde la “normalità” come contenuto precettivo-disciplinare della norma con la “situazione normale” che ne costituisce il presupposto ed il significato.
Una teoria della guerra civile dovrà, pertanto, essere costruita a partire da quella distinzione fondamentale, che consente di definire il piano strutturale della categoria “guerra civile”. Per una tale definizione, occorrerà anzitutto un lavoro preliminare che consenta di costruire il modello di struttura di normalità/regolarità riferito ad un determinato sistema normativo.
Si tratta, in primo luogo, di individuare, a partire dallo stesso piano normativo e dalle relazioni ad esso sottese, le regole che consentono a quest’ultimo di significare, di essere pensabile. La “situazione media”, pertanto, ha una funzione di senso, e non normativa.
È corretto affermare che il “normativo” esprima “aspettative di comportamento stabilizzate in modo da resistere a variazioni della situazione di fatto”, e che il senso della norma implichi “una validità incondizionata” (Luhmann). Ciò, tuttavia, coesiste con il fatto che quel senso venga prodotto, ordinato e controllato attraverso il rimando ad una “regolarità” considerata in termini non normativi, ma fattuali.
La guerra civile costituisce il fenomeno di frattura dell’orizzonte di senso delle norme. Ciò non significa che tale orizzonte sia “neutrale”. La struttura della “normalità/regolarità” è anch’essa polemica: “non c’è nella conoscenza un adeguamento all’oggetto, un rapporto di assimilazione, ma c’è, al contrario, un rapporto di distanza e di dominio” (Foucault). La costruzione del senso delle norme attraverso la “normalità” è, pertanto, anch’esso esercizio di un potere, e da tale esercizio la guerra civile dunque dipende.
In secondo luogo, una tale prospettiva di definizione consente di dar conto compiutamente, nel momento in cui gli ordinamenti giuridici moderni rimandano costantemente ad un piano di normalità/regolarità, del carattere endogeno della guerra civile. La “normatività” – in quanto “progetto” normativo – implica sempre un problema di “senso” che essa risolve attraverso la “normalità/regolarità” e la sua capacità di significare le “regole del gioco” e le “relazioni strategiche” ad esse sottese. Il potere origina dalla guerra civile non come la pace dalla violenza dello “stato di natura”, ma come costruzione ordinata di senso attraverso le strutture della “norma”.
La guerra civile costituisce il limite negativo del “problema di senso” (Sinnproblem) proprio di ogni forma di potere moderna. Essa, in altri termini, rivela l’impossibilità di un incondizionato autosignificare da parte del potere (lo Stato di Hobbes). In tale prospettiva, la relazione di reciproca implicazione tra Stato e guerra civile, presente in Hobbes, significa che lo Stato – inteso qui come ordine normativo – non può sorgere se non producendo il proprio ordine di significato attraverso il senso negativo della guerra civile. È in questo sforzo, in questo esercizio del potere, che le “norme” si costituiscono e si dispongono secondo un piano di “normalità/regolarità”.
Piano che, pertanto, costituisce un sistema di significazione, il quale è condizione necessaria per l’ordine “normativo”. La guerra civile rappresenta il concetto-limite di quell’articolazione di senso: nella guerra civile, infatti, la “normalità” smette di possedere una funzione semantica rispetto alla “norma”. La “regolarità” non è più segno, l’uniforme militare non significa più il nemico, come scriverà Montaigne:
“Viaggiando un giorno, mio fratello signor de La Brousse ed io, durante le nostre guerre civili, incontrammo un cortese gentiluomo; era del partito avverso al nostro, ma io non ne sapevo nulla, poiché si fingeva diverso; e il peggio di queste guerre è che le carte sono così mescolate, il vostro nemico non distinguendosi da voi per alcun segno evidente né di lingua né di contegno, educato sotto le stesse leggi, costumi e clima, che è difficile evitare confusioni e disordine“.
Quando cessa di essere stabile il “conferimento di senso”, la produzione, il controllo e l’ordine del significato del piano normativo, la funzione epistemica della struttura di regolarità entra in crisi. Ciò indica che non è più possibile comportarsi “normalmente”, perché la “norma” non ha più alcun significato. La guerra civile deve essere definita, di conseguenza, come rottura delle strutture di senso proprie di un dato ordinamento giuridico, del “codice” che ne consente la decifrazione.
Il concetto di guerra civile è, pertanto, al tempo stesso sia da intendersi in senso negativo – come situazione in cui cessa la corrispondenza tra “norma” e “normalità” – che in senso positivo – ossia come concetto necessario per individuare la funzione di senso che la “normalità/regolarità” svolge.
La nozione di guerra civile deve essere dunque assunta nella sua funzione “euristica”: non più soltanto oggetto puramente “negativo” (“ciò che non è Stato”), ma concetto-limite dotato di un senso positivo. La guerra civile, nel suo significare come prospettiva di senso, è ciò che fissa il limite oltre il quale il “piano normativo” cessa di significare alcunché. Oltre il quale, in altri termini, le “norme” – anziché assolvere alla loro funzione tassonomica e di ordine – iniziano a svolgere una semplice funzione passiva ed inerte, di puro “controllo”.
Soltanto la guerra civile consente, allora, di definire il punto di rottura dell’ordinamento, a partire dal quale il “normativo” si impone senza “normalità”, diviene non più ordine, ma puro controllo. Ciascuno avverte, allora, di non avere più un destino da dover realizzare, di poter fare ciò che deve: le vite delle persone si sentono come interamente determinate da un avvenire che è loro semplicemente imposto, rispetto al quale non sono liberi, sono “inerti”.
3. I compiti del socialismo.
Esiste oggi una situazione di questo tipo? Una situazione nella quale sono venute meno, per larghe masse di popolazione, le condizioni di normalità che ogni ordine civile, per esistere ed avere senso, deve presupporre?
Se dieci persone su cento non vivono più in una situazione di “normalità”, la società cede – e con essa le sue stesse condizioni di possibilità normativo-repressive. C’è un bel passo di Simone Weil che descrive l’atmosfera della Berlino del 1932, e che indica con precisione cosa significhi essere già nella guerra civile, nel cedimento della “normalità”, e che merita di essere riportato:
“La crisi ha spezzato tutto ciò che consente a ogni uomo di porsi fino in fondo il problema del proprio destino, ovvero le abitudini, le tradizioni, la stabilità della struttura sociale, la sicurezza […]Insomma, il giovane tedesco, operaio o piccolo borghese, non ha più un angolo della sua vita privata al sicuro dalla crisi. Per lui le prospettive buone o cattive concernenti gli aspetti anche più intimi della propria esistenza si formulano immediatamente come prospettive concernenti la struttura stessa della società”.
Questa è la guerra civile: la perdita di “senso” della “normalità”, l’impossibilità di vivere in una situazione “media”, la mancanza di significato che, ora, rivela l’ossatura stessa della società, la sua struttura più profonda. Per molti aspetti, la nostra società sembra aver raggiunto quel punto di cedimento. Davanti ad esso, tuttavia, il socialismo – ossia la concezione critico-pratica della storia – non ha più la possibilità di definire l’avvenire come progetto, ossia di proporre una teoria politica rivoluzionaria.
Diversamente può – e deve, per la sua concezione fondante – riconoscere e comprendere il movimento negativo che quel punto implica, la realizzazione di libertà verso cui quel punto può portare. Riconoscere la negatività del presente significa, in tal senso, insistere nel riconoscere come la “situazione media” che ha ceduto debba essere sostituita da una nuova, la quale è avvenire già nel presente.
Il socialismo deve comprendere il reale dove esso è oggi: nella fine delle “situazioni medie” che il nostro sistema giuridico, sociale ed economico presuppone. È qualcosa di più profondo della crisi della legittimità del potere, in quanto insiste sull’esistenza ed il destino dei singoli individui, rendendoli impossibili. In tale impossibilità, c’è la guerra civile e, in essa, l’unica condizione per una prassi reale, ossia storicamente compresa e determinata verso la negatività e la libertà. Cosa si chiede, dunque, al socialismo, oggi? Di compiere questo punto storico di negazione. Di estirpare ciò che è morto nella storia e nella società.
Tommaso Gazzolo, in anteprima su Labouratorio, prima di ripubblicare una versione ridotta di questo testo su Mondoperaio (e scusate se è poco).
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