[Maggianate] Fenomenologia della reazione generazionalista
venerdì 31 dicembre 2010 | Scritto da Alessandro Maggiani - 1.439 letture |
Più puntuale dell’influenza stagionale e più utile al potere di una falsa febbre suina, anche nell’anno del Signore 2010 si è manifestata la protesta studentesca, flagello che da decenni ciclicamente appare, palesando irrazionalità, esibizionismi e conformismi tramandati da nonno, a padre, a figlio.
Pretesto per scatenare le sceneggiate di questi figli dell’alta borghesia, in cerca di nuovi spazi per il proprio egoismo di classe, è stata la riforma universitaria di Gelmini Maria Stella, testo sottinteso e di una certa rilevanza: il futuro di una generazione.
Pretesto, sì, lo ripetiamo, perché solo questo può essere una sedicente riforma priva di misure incisive e profonde, fastidiosa solo per qualche barone della casta universitaria, fatta più dalla ragioneria dello Stato che dalla signora Gelmini; pretesto che non merita i fiumi di inchiostro sprecati per tentare di spiegare il nulla assoluto che compone la nuova legge.
Concentriamoci dunque sul testo, tentando di comprendere quale futuro sia possibile costruire con il materiale umano che popola gli atenei italiani.
Lì, nella tanto denigrate ma qualitativamente dal livello medio buono università italiane, si confrontano due tribù, due specie umani differenti ma fondamentalmente simili: i figli di chi ce l’ha fatta e i figli di chi ce la vuole fare. Fuori dal perimetro degli atenei sta una terza razza, la più numericamente folta, composta da coloro che non ce la faranno mai e poi mai e già tirano avanti alla meno peggio tra un precariato e l’altro, con la pensione del nonno come unico ammortizzatore sociale.
Partiamo dai pargoli di chi ce l ha già fatta, dai bambini degli ex sessantottini e settantasettini, che ora popolano la politica, le scuole, le università, la pubblica amministrazione e tutte le libere professioni di élite. Che ne sanno questi viziatelli di quel mondo che sta là fuori? Poco, e infatti in piazza urlano slogan come ”noi la crisi non paghiamo”.
E chi la deve pagare, caro bambino? Il tuo coetaneo precarizzato in un centro commerciale?
Arrivati al tetto della ricchezza e saturi di desideri indotti dal mercato, con l’ascensore sociale bloccato per assenza di piani da scalare, questo tipo di giovani studenti vede il futuro cupo, il rischio di tornare indietro di un gradino rispetto ai genitori dietro l’angolo e ripiegano quindi su sé stessi, all’italiana, in maniera disordinata reazionaria e profondamente egoista.
Noi la crisi non la paghiamo, gridano, e sfasciano, assaltano i simboli nazionali come a demolire ogni oggetto del bene comune nel disperato riflesso che assalendo tutto ciò che è comunità possano ottenere qualcosa per il proprio piccolo interesse.
I loro nonni così ce l’hanno fatta, si sono presi un posto a tavola, raramente col merito, spesso con la violenza e ora da quella tavola non vogliono smuoversi, non ”vogliono pagare la crisi”.
La dovrebbero pagare gli altri studenti, che i rivoluzionari reazionari tanto disprezzano, gli sgobboni silenziosi che mai manifestano, studiano e silenziosamente tentano di portare a mamma e papà la tanto agognata e illusoria laurea. Illusoria, sì, perché al tavolo dove si mangia il caviale delle corporazioni e si beve lo champagne delle libere professioni mai li faranno entrare e bravi, silenziosi e sgobboni emigreranno in paesi più civili.
Dovrebbero pagare infine coloro che restano, gli outsider, i soliti noti fuori dai giri che contano, salariati e loro figli, il terzo/quarto stato si diceva una volta, quando le parole avevano ancora un senso.
Si può parlare, di fronte a questo, di rivoluzione di una generazione? I media semplificano e danno spazio solo ai privilegiati che sanno urlare meglio, accolti nel salotto di Santoro e là iniziati al teatrino politico in scontri patetici con La Russa, per poi salire al Quirinale diventando classe dirigente e digerente, riproducendosi in casta come i loro padri.
E’ questa rivoluzione? No, è reazione, è il meccanismo di conservatorismo sociale che va avanti da quarant’anni, dopo l’ultimo grande progresso economico del boom, a cui seguì l’azionarsi dell’ascensore sociale del ’68, meccanismo che da allora si riproduce, nel tentativo di tenere gli outsider sempre fuori dal recinto del privilegio alto borghese di stampo culturale conquistato allora.
Inceppatosi il meccanismo, terminato tutto ciò che era depredabile della macchina statale, il giovane tenta di riproporre il solito schema, tenta la forza per indurre alla cooptazione, tenta in tutti i modi di evitare la strada del sacrificio, dell’impegno, del mettersi in gioco.
Nessuno che proponga una radicale riforma di sistema, nessuno che abbia il coraggio di fare un passo indietro, di ragionare su dimensioni storiche e prospettive progettuali di costruzione del futuro.
Gridano ”ci avete rubato il futuro” ma non vogliono, per disabitudine al sacrificio, costruirsi l’avvenire, privi dell’idea di un domani di progresso sociale diffuso e indistinto, al di là del piccolo cabotaggio personalistico familistico o corporativo.
In definitiva, una élite di giovani conservatori e reazionari, profondamente egoisti e accidiosi, e in quanto tali da condannare senza appello, tenta di strumentalizzare piccole masse per tutelare privilegi conquistati, con il totale appoggio del sistema politico, che non viene certo scalfito da queste forme protestatarie.
Intanto, nella perfida Albione, studenti gridavano ”l’istruzione è il futuro della nazione”. Forse, da là, da un paese dove non si manifesta per coazione a ripetere ma per tasse triplicate, forse, da là, da un posto dove uno studente medio qualsiasi ha la sensibilità di parlare di futuro della nazione e non solo del proprio, da là abbiamo qualcosa da imparare, forse…
Un giorno i silenziosi sgobboni e gli emarginati sociali potrebbero destarsi dal sonno oppiaceo calcistico/consumistico/televisivo al quale sono abbandonati e la situazione potrebbe farsi spiacevole, molto spiacevole.
Nostro modesto compito sarà il tentare di svegliarli, per le vere e uniche rivoluzioni: le riforme economiche e quindi sociali.
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