[Lab Riforme] L’Università fa schifo. Viva l’Università!
venerdì 31 dicembre 2010 | Scritto da Nicolò Cavalli - 1.075 letture |
Nel nostro Paese, esiste un principale motivo per cui non ci si può attendere che la ricerca scientifica sia esclusivamente sostenuta dagli sforzi economici dei privati. Caso unico al mondo, l’economia italiana è innervata in larga misura da piccole e medie imprese raggruppate in distretti industriali, le cui ridotte dimensioni non consentono la formazione di ampie concentrazioni di capitale e dunque inibiscono sostanzialmente l’investimento in ricerca e sviluppo.
Il progresso tecnico avviene così a salti, guidato da innovazioni trovate come soluzioni di problemi specifici piuttosto che come l’esito di un coerente processo di analisi ed esperimento.
Tale meccanismo è destinato a mostrare la corda, quando i livelli tecnologici delle nostre imprese sono raggiunti e superati da aziende straniere, in competizione con quelle italiane grazie all’integrazione dei mercati internazionali, spesso favorite da un minore costo della manodopera e da una leva fiscale meno pressante: è a questo punto che il peso specifico della produzione di conoscenza aumenta esponenzialmente, dal momento che la competitività viaggia sulle gambe delle capacità di innovazione dei prodotti.
La ricerca scientifica è destinata dunque a fare la differenza nel mondo globalizzato e, se l’Italia vuole mantenere i propri livelli di esportazione e conseguentemente di benessere, occorre che essa si affidi a un sistema universitario maggiormente connesso al mondo del lavoro: un sistema in grado di produrre capitale umano e sapere tecnico–scientifico, da mettere a disposizione del tessuto economico.
Ha dunque senso che il legislatore si impegni a trovare una maggiore integrazione tra i due momenti, pensando anche alla partecipazione dei privati agli organi di governo accademico e finanziando la ricerca molto più di quanto oggi non venga fatto, anche utilizzando questi nuovi canali, complementari rispetto al finanziamento pubblico ordinario, comunque da incrementare. Si potrebbero ad esempio ipotizzare meccanismi di remunerazione della proprietà intellettuale al livello dei Dipartimenti in cui sono state concepite innovazioni economicamente fruttuose.
Il mondo accademico italiano è infatti pieno di ricercatori validissimi, ambìti dai migliori atenei e dalle maggiori aziende straniere, che sono incentivati ad andarsene a causa di una realtà universitaria povera e dominata da corporazioni inefficienti, i cui cascami familistici deprimono i talenti e costituiscono una cappa maledetta, che fa sì che nelle università di casa nostra rimangano spesso i meno meritevoli.
Il 16,8% dei ricercatori e dei professori di I e II fascia nelle “scienze dure” (matematica, fisica, biologia, ingegneria) non ha mai pubblicato un articolo nelle principali riviste scientifiche internazionali, mentre il 7,8%, pur avendo pubblicato, non risulta citato da nessun altro ricercatore. Come ricorda Giovanni Abramo, “La distribuzione della produzione scientifica segue una legge quasi paretiana: il 23 per cento degli accademici ha realizzato il 77 per cento degli avanzamenti scientifici complessivi.”
Non esiste allora finanziamento all’università pubblica italiana che non possa non essere subordinato a una revisione meritocratica dei sistemi di reclutamento del personale accademico, distribuendo i denari a un numero limitato di centri di eccellenza, là dove un avanzamento intellettuale viene effettivamente prodotto e dove cervelli da tutto il mondo possono essere attirati, al contempo concedendo la possibilità di non confermare i contratti di docenti e ricercatori inefficienti.
Inoltre, come ha ricordato Roberto Perotti, il fatto che l’università italiana sia quasi gratuita non solo sottrae potenziali risorse agli atenei, ma crea una situazione per cui le famiglie più povere, i cui figli smettono più frequentemente gli studi presto, pagano, con le loro tasse ritenute alla fonte, l’università ai figli di imprenditori, dirigenti, liberi professionisti, che sono presenti nelle aule degli atenei in numero relativamente molto maggiore (tra gli studenti, i figli di liberi professionisti, dirigenti e imprenditori sono il 21,7% e i figli di impiegati e operai sono il 23,5%, tuttavia nella popolazione totale ci sono molti meno imprenditori che impiegati e operai!).
La quasi gratuità dell’università pubblica italiana è inoltre matrice di una forte distorsione degli incentivi alla scelta degli studenti: se l’investimento fosse più oneroso, non ci si potrebbe permettere il lusso di optare per corsi di laurea con sbocchi lavorativi nulli o quasi nulli, come viene fatto oggi da molti giovani, per la frustrazione propria e dei genitori quando, dopo un impegno di tempo, denaro e fatica durato anni di studio, si entra direttamente nella felice schiera dei disoccupati (nella mia personale esperienza, laureato in triennale con 110 e lode in corso nella Facoltà di Scienze Politiche di Bologna, con tesi di ricerca a SciencesPo Paris, l’unica offerta di lavoro ricevuta è stata quella di andare a porre un questionario alla stazione di Bologna dalle 22:00 alle 23:00 di sera, per i pendolari dei treni internazionali). Con costi più alti, le facoltà, magari più difficili ma con ampia appetibilità di mercato, si ripopolerebbero riequilibrando il sistema.
Ad una spesa maggiore per le rette corrisponderebbe inoltre un maggiore potere contrattuale degli studenti e delle loro famiglie, portando ad un aumento della qualità dell’insegnamento e dei servizi impartiti dalle università statali, che si dovrebbero al tempo stesso mostrare più selettive e dunque autorevoli, in modo da attrarre il maggior numero di studenti disposti a pagare tasse più alte.
Paesi come l’Australia hanno optato per un aumento delle rette accompagnato dalla opzione, per ogni studente, di ricevere un prestito da ripagare una volta trovato lavoro, ad un tasso d’interesse dipendente dallo stipendio percepito e che, a prescindere dalla quantità ripagata, si estingue dopo 25 anni. Gli studenti più poveri ricevono sussidi a fondo perduto e un vasto sistema di borse di studio basate sul merito, con forte partecipazione dei privati, permette ai migliori di studiare senza spendere, spesso a prescindere dal reddito.
Ora, una riorganizzazione del diritto allo studio attorno alla logica del prestito d’onore sarebbe evidentemente una scelta limitata e limitante, che scoraggerebbe molti dei potenziali studenti provenienti dai ceti meno abbienti: per cui è ragionevole che l’enfasi rimanga sulle borse di studio. In presenza di fondi pubblici sempre più esigui, si fa necessaria una razionalizzazione della spesa, da legare a criteri di mantenimento stringenti, come la perdita del beneficio in caso di mancato ottenimento di un determinato numero di crediti e, per le borse di merito, la valutazione della media dei voti.
E’ stato poi osservato che molti dei manager e degli analisti più anziani delle maggiori banche italiane hanno studiato grazie a borse ottenute dalle banche stesse: occorrerà dunque incentivare (tramite credito d’imposta o altre forme di sgravi fiscali, non solo limitati agli istituti bancari) il ritorno a una pratica oramai quasi del tutto abbandonata, salvo dalla Banca d’Italia, che mantiene un impianto di ottimi finanziamenti, collegati a future assunzioni.
Modifiche di questo segno renderebbero nel breve periodo il sistema dell’università italiano più equo, maggiormente capace di intercettare e premiare il merito, più competitivo e moderno e adatto a creare professionalità spendibili nell’arco della carriera lavorativa.
Nel lungo periodo, invece, il discorso si fa più complesso. E’ evidente come la retorica dell’articolo 3 della Costituzione si infranga contro i dati di fatto: la nostra università non solo è spesso di bassa qualità e basato su di un cieco egualitarismo che frustra i più bravi, in particolare negli atenei più giovani e periferici e in determinate facoltà (alcuni corsi di laurea magistrale della Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna hanno avuto percentuali di laureati con un voto medio superiore a 109, 8 per oltre l’80% degli studenti iscritti nell’anno 2008/2009), mentre il sistema dell’istruzione universitaria italiana, dove seriamente praticato, rimane ancora in grado di sfornare studenti più preparati dei loro colleghi stranieri, in particolare sul piano teorico (molto si potrebbe fare per collegare la teoria alla pratica).
Cosa ben più grave, la nostra università è regressiva, ossia non è riuscita a realizzare quegli ideali di libertà e uguaglianza a prescindere dalle posizioni di partenza , che era il vero mandato di legittimità costituzionale; come abbiamo visto, essa ha anzi finito per contribuire a cristallizzare una società bloccata, che si riflette in tassi di mobilità intergenerazionale mai così bassi dal dopoguerra.
Nel lungo periodo, la soluzione non può essere quella di aumentare le tasse, perché tanto all’università ci vanno i figli degli imprenditori. La sfida sarebbe la solita: quella di fare in modo che all’università ci vadano i figli di impiegati e operai, in misura molto maggiore rispetto a quella odierna e con qualche credibile prospettiva di migliorare il proprio status socio-economico. Ma, per raggiungere questo obiettivo, altro non si può fare se non riformare il sistema dell’istruzione a partire dalla scolarizzazione primaria.
La costruzione di una società equa, di individui pienamente realizzati, non può prescindere da una revisione del nostro modo di vivere insieme in società.
Nicolò Cavalli _ 23 anni dei quali molti buttati.
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