[Labouratorio di geopolitica] A Tunisi il Faraone non c’è più
sabato 29 gennaio 2011 | Scritto da Manfredi Mangano - 1.434 letture |
La Cina del Mediterraneo: questa descrizione del Sole 24 Ore rende molto bene l’idea di come l’ex presidente Ben Alì nei suoi 25 anni al potere si sia mosso: rigorosa laicità dello Stato, forti investimenti in istruzione e università, privatizzazione di parte dell’ingente patrimonio statale, incentivi fiscali e liberalizzazioni per attirare le aziende occidentali, ma mantenendo il complesso e generoso sistema delle “provviste di pane”, che garantiscono un minimo di pane e zucchero a tutti i cittadini, a un prezzo sussidiato. La dipendenza dall’estero cresce, ma nessuno se ne preoccupa: Francia e Italia sono i due principali partners del Paese, con una presenza qualificata di industrie anche strategiche.
La Tunisia diviene meta di ricchi investimenti e di forti flussi turistici, grazie alla stabilità garantita dal regime: dopo il 2004, la repressione si intensifica, colpendo equanimemente islamisti e le ONG locali e occidentali.
Lo sviluppo però tarda ad arrivare nel Sud e nell’interno del paese mentre il rallentare dell’economia esaurisce le opzioni a disposizione dei giovani, troppo qualificati per gli unici settori che ancora resistano, il tessile e il turistico: mentre nelle città più lontane dai palazzi del potere e dalla valuta forte del turismo iniziano a scoppiare i primi scioperi, i giovani si trovano privi della valvola di sfogo migratoria, per la stretta attuata dai paesi europei. Il Governo deve tagliare i sussidi alimentari proprio mentre si avvicina una impennata dei prezzi alimentari, che stavolta viene avvertita forte anche nei centri urbani più sviluppati. Quando due giovani studenti disoccupati, circa un mese fa, al culmine dell’ondata di proteste per i rincari, si suicidano nelle piazze la rabbia dei ceti medi traditi esplode con violenza e si salda con quella delle campagne e delle città industriali.
Ben Alì non si aspetta una rivolta di tale vigore: il Presidente, oramai 75enne, pensa alle prossime elezioni del 2014, convinto che non vi sia comunque alternativa a lui (e in gran parte ha ragione, data la vacuità dei suoi oppositori, il carattere incolore dei suoi tecnocrati e l’odio che ispirano i suoi familiari), e reagisce duramente. La polizia spara sulla folla, e iniziano a contarsi i primi morti, mentre vengono chiuse le Università per disperderne i giovani occupanti. Ben Alì cerca di agitare lo spettro del fondamentalismo islamico e stringe la censura di Internet, ma non abbastanza: i giovani manifestanti si coordinano quotidianamente via sms, o tramite server esteri. Gli scontri non accennano a calmarsi, e la comunità internazionale chiede moderazione a Ben Alì, con USA e Gran Bretagna in prima fila nel denunciare la repressione, e la popolazione sempre più infuriata per pallottole che vanno giocoforza a uccidere sopratutto vecchi operai e agricoltori, e giovani di neanche vent’anni che chiedono un lavoro.
Emergono le prime, gravi fratture, anche all’interno del regime: Ben Alì prova a imporre il coprifuoco, ma il Capo di Stato Maggiore Rashid Ammar preferisce dimettersi piuttosto che autorizzare il fuoco sui dimostranti, e ben presto interi reparti dell’Esercito, inviati nel Sud in rivolta, solidarizzano con la popolazione e impediscono alle forze di polizia lealiste di intervenire, arrivando vicini allo scontro a fuoco. Di fronte all’aperto rischio di un golpe militare, il Presidente capisce di essersi spinto troppo oltre: alla polizia viene revocata l’autorizzazione a sparare, e prima il Ministro degli Interni Rafik Belhaj Kacem , considerato un “falco” della repressione, poi l’intero governo, vengono costretti alle dimiissioni da Ben Alì, che poi compare in TV per annunciare che non si ricandiderà alle prossime elezioni, che sarà fermata la censura e che verranno imposti dei calmieri su generi alimentari: la popolazione risponde saccheggiando i supermercati sotto lo sguardo benevolo dei soldati che dovrebbero presidiare le piazze. Al primo ministro in carica, il rispettato tecnocrate moderato Mohammad Ghannouch spetterebbe il compito di formare un nuovo Esecutivo e traghettare il Paese verso nuove elezioni legislative.
Ma il tentativo del Presidente di gestire la transizione fallisce: i tumulti non si placano e i dimostranti tornano a scontrarsi con forze di polizia che, forse conscie di essere vicine al momento della resa dei conti, sembrano sparare di propria iniziativa, quasi in un remake di Romania 1989. Una organizzazione di esuli attiva con un proprio sito internet da Londra e con suoi gruppi di militanti sul posto, Takriz, tra le più attive nell’uso dei nuovi media durante la rivolta ma su cui pesano sospetti non chiari di “deviazione dall’esterno”, adesso soffia apertamente sul fuoco, invitando i dimostranti a assalire e saccheggiare i ministeri.
Non è ancora ben chiaro cosa abbia spinto Ben Alì a ritirarsi solo il giorno dopo l’annuncio del reincarico a Ghannouch: le dichiarazioni ufficiali dei mass media occidentali e tunisini parlano di una fuga improvvisa. Ma altre fonti, tra cui PeaceReporter e, per la penna di Giuliana Sgrena, il Manifesto, parlano apertamente di un colpo di Stato militare, con il presidente posto di fronte all’alternativa tra arresto immediato o fuga in buon ordine. Sia come sia, Ghannouch assume la Presidenza ad interim della Repubblica, senza che questo plachi gli scontri: per l’ala dura della protesta Ghannouch, che nel suo discorso di insediamento si è presentato al Parlamento con un vistosa cravatta viola, il colore simbolo del RCD, è solo un burattino nelle mani dell’ex Presidente.
Ma Ghannouch non si ferma, e da onesto e laborioso tecnico si mette al lavoro: affida la Presidenza della Repubblica, sempre seguendo scrupolosamente la Costituzione, al Presidente della Camera Fouad el-Mabzaa, che gode anche lui di buona fama. Ghannouch, ovviamente reincaricato alla premiership, conferma le aperture fatte da Ben Alì e apre il futuro governo a tutte le opposizioni legali (quindi, non ai partiti sciolti dal governo con l’accusa di fiancheggiare il fondamentalismo islamico), mentre il neoPresidente della Repubblica annuncia nuove elezioni generali entro 6 mesi.
Non è ancora chiaro se questo basterà a stabilizzare il Paese, e a incamminarlo sulla via di una stabile democrazia parlamentare: tuttora, gli scontri di piazza continuano, e ora l’Esercito sembra impegnarsi direttamente nella repressione. La peculiare situazione della Tunisia, piccolo paese laico, dalla vivace società civile, aperto e con una collaudata tradizione politica e di Stato sociale, potrebbe risultare forte abbastanza da lasciar pensare che il miracolo tunisino sopravviverà a questa transizione improvvisa senza cadere vittima degli oramai molto deboli fondamentalisti islamici. Ma è certo chiaro che, dopo il Termidoro della rielezione plebiscitaria di Mubarak, qualcosa di grosso è in movimento nell’Africa del Nord e nel Vicino Medio Oriente.
Questo articolo è un estratto/riassunto di un pezzo più lungo che il nostro labourante Manfr ha scritto per Eurasia. Il pezzo intero, intitolato “Domino Nord Africa, cade la tessera Tunisi”, lo trovate qui.
Manfredi Mangano _ 23 anni, studente in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Tra i suoi 6 “interessi e attività” su Facebook, uno è Fernand Braudel. Nel resto del tempo, fa talmente tante cose che Labouratorio ha perso il conto
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