[Labouratorio 36] Barack/Tremonti, fra Paura e Speranza
martedì 4 novembre 2008 | Scritto da Tommaso Ciuffoletti - 1.630 letture |
Mentre scriviamo Obama ha vinto la sfida elettorale con John McCain solo in un paesino di 21 anime nel New Hampshire. Ma se tutto andrà come deve andare, nel momento in cui leggerete questo pezzo gli Stati Uniti avranno il loro primo Presidente nero … mentre in Italia, di nero, abbiamo circa 1/3 dell’economia nazionale.
Non solo, ma in Italia abbiamo un tasso di provincialismo fulminante che è roba da far impallidire Max Pezzali. Per i media italiani, che di questo provincialismo sono il megafono attaccato all’Apecross, diventa notizia il fatto che Pinco e Palle si siano schierati per McCain o (molto più facilmente) per Obama. Premesso che ai due candidati non credo interessi molto che la Moroni o la Melandri abbiano in simpatia l’uno o l’altro, vien da chiedersi quanto di ciò possa fregarmene a me, uomo dell’italica strada. Oltretutto questi endorsement (che detta così fa più figo) sono argomentati in nome del niente. O meglio, sono giustificati dalla provinciale voglia di mostrarsi internescional, seguita dal silenzio assoluto sulle ragioni per cui Pinco e Palle parteggino per JMC o Barack.
Ma tralasciamo questi meschini dati di pseudofolclore – in nome del quale, ormai, non resta che aspettare che il consiglio comunale di Casalpusterlengo dibatta delle presidenziali a stelle e strisce – e dedichiamoci invece al nostro uomo nero: Barack Obama.
Facciamolo però, in maniera anticonformista e diciamo subito che Obama è un bel pezzo di conservatore. Non uno di quelli duri e puri, ché ancora è giovane e poco esperto, ma ci pare che sia partito col piglio giusto durante la sua campagna elettorale.
Il fatto di essere un candidato di colore, giovane e senza troppa esperienza (anche se per l’ennesima volta i Democratici candidano un avvocato) lo ha coperto – a livello d’immagine – sul fronte del carattere di novità della sua candidatura. Ma giocare solo su questo punto la propria campagna elettorale lo avrebbe visto nuovamente perdente negli stati dove tradizionalmente i repubblicani hanno messo le basi delle loro ripetute vittorie degli ultimi decenni (eccezioni fatte per il povero Carter e il simpatico Clinton). Ecco quindi che Obama si è messo a scavalcare i repubblicani su uno dei loro terreni forti: “la protezione in questo mondo pieno di pericoli” (vedi George Lakoff “Non pensare all’elefante”)
Prima di proseguire il nostro ragionamento diamo un’occhiata ad alcuni di quei pericoli da cui Obama dovrà difendere i suoi concittadini. Il primo è la paura della crisi finanziaria. Ebbene, quest’ultima non è figlia del liberismo selvaggio, ma di una politica sociale poco accorta avviata proprio dall’ultimo presidente democratico: Bill Clinton. La finalità di quella politica era estremamente alta: favorire l’integrazione dei nuovi americani dando loro maggiori possibilità per acquistare una casa di proprietà. Per farlo però, ci si è affidati a quella che qualcuno chiamerebbe “finanza creativa”, per cui lo stato garantiva tacitamente gli istituti di credito che non venivano garantiti dai clienti che contraevano i famosi mutui subprime. Proprio il default di questi ultimi è stato l’innesco per il casino che di lì in avanti si è propagato nel mare della liquidità senza vincoli.
Oggi viviamo il divertente paradosso per cui un candidato democratico alla Casa Bianca si avvantaggia degli errori commessi dall’ultimo democratico che lì ha risieduto.
Le restanti paure sono invece figlie della politica facilona dell’amministrazione Bush, la guerra in Iraq su tutte (anche se sarebbe un errore misurare col termometro europeo le reazioni made in Usa a tale episodio).
Le ultime paure, le meno sottolineate nelle cronache italiche, sono invece figlie delle difficoltà internazionali e dipendono da fattori molteplici e difficilmente governabili. Sono le paure di una globalizzazione in cui gli Usa iniziano a sentire il peso della competizione crescente, in cui le Stars and Stripes devono cercare spazio tra Tigri indiane e Dragoni cinesi, tra Samba brasiliana ed Orsi russi. Obama rappresenta la risposta più conservatrice di fronte a tali sfide. Non è un Tremonti d’Oltreoceano, ma su alcuni punti non parla una lingua così distante dal tributarista di Sondrio.
Cosa dice infatti l’Obama colbertista? “Le trattative sul Wto sono fallite? Meglio! Così eviteremo di ridurre i sussidi ai nostri agricoltori”; “Accordi di scambio bilaterali e regionali? Sono il male, perché rappresentano la via d’accesso per prodotti stranieri sui nostri ricchi mercati”; “Essere il Wal Mart del mondo? Limitiamoci ad esserlo in casa nostra!”.
Questa è una volgare summa dell’Obama-conservative-pensiero. Eppure ci pare indicativa. Indicativa anche del perché ci aspettiamo una vittoria di Obama. Assecondare un po’ di scoramento significa sintonizzarsi su un umore diffuso nel paese e forse qualche sorpresa elettorale per i democratici potrebbe arrivare proprio da quegli stati a forte vocazione agricola, storiche roccaforti dei repubblicani. In attesa del riscontro delle urne non ci resta che far seguire alle chiacchiere di cui sopra un modesto auspicio. La nostra speranza è che Obama non si sia assuefatto alla paura che ha giustamente cavalcato in campagna elettorale. Lo si ripeta: non crediamo che Obama sia il Tremonti dell’Illinois, ma per convincerci dovrà essere lui a sciogliere il nodo che lega “la paura e la speranza”. Noi confidiamo nella seconda.
LABOURATORIO N. 36 – SOMMARIO
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