Labouratorio si fa serio per trattare questioni serissime. Ci troviamo quasi in imbarazzo ad ospitare sul nostro sito tre interviste di tre esponenti politici di primo livello.
Lanfranco Turci, già presidente dell’Emilia Romagna e della Lega delle cooperative è stato a lungo esponente della corrente migliorista del PCI prima di approdare, più recentemente su lidi socialisti. Non c’è motivo di nascondere che molti labouranti devono tantissimo all’esperienza politica maturata nella sua Associazione PER la Rosa nel Pugno. E’ pertanto con vero piacere che presentiamo la sua intervista in esclusiva per Labouratorio.
1) Come giudica il valore dell’accordo di Mirafiori, e più in generale la gestione Marchionne, per la strategia di rilancio della Fiat e il suo futuro in un mercato difficile come quello dell’auto?
Sono molto scettico sull’efficacia del piano Marchionne. A parte il fatto che nessuno ancora conosce i contenuti di questa fantomatica “fabbrica Italia” in nome della quale Marchionne ha imposto il suo diktat ai sindacati e pretenderebbe il titolo di salvatore della patria, la verità è che la Fiat è in una posizione molto fragile in un mercato dell’auto saturo e in via di profonda concentrazione. Paga il prezzo di una struttura industriale obsoleta e degli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo di tutti questi anni. Anche il successo dell’operazione con la Chrysler è tutt’altro che garantito, salvo che nei suoi effetti finanziari. Bisogna inoltre considerare che l’economia dei paesi avanzati sconterà ancora a lungo gli effetti di una crisi di cui i grandi gruppi finanziari sono i primi responsabili e tuttora i principali registi.

E fra gli effetti c’è un calo della domanda dovuto all’ impoverimento dei ceti popolari e di vaste aree di ceti medi che certo non traggono grandi benefici dalle politiche di austerity ora in voga in Europa. Si domandava giustamente Mucchetti sul Corriere del 4 gennaio se “la fiat in Italia si ridurrà a una fabbrica cacciavite o se conserverà la sua intelligenza spesso svenduta in passato”. La scelta di puntare sulla compressione del fattore lavoro mi fa propendere per la prima ipotesi e non è certo la miglior ricetta per la produttività.
2) Il Governo ha dato appoggio incondizionato alla dirigenza della Fiat, sostenendo l’accordo di Mirafiori cosi come aveva fatto con Pomigliano. L’azione del governo ha perseguito l’interesse del paese
nel difendere esclusivamente le ragioni del Lingotto?
Il governo non ha avuto neanche la dignità di pretendere di vedere le carte della Fiat. Ha ingoiato senza fiatare la cancellazione di Termini Imerese e si è profuso in elogi e ringraziamenti per una impresa che, pur avendo tutti i diritti di andare dove più le conveniva, come ha tenuto a sottolineare preliminarmente il presidente Berlusconi, decideva di reinvestire in Italia. Sul piano sindacale il governo ha inoltre colto l’occasione offerta da Marchionne per proseguire nel suo piano di divisione dei sindacati e di isolamento della Fiom e della Cgil. Basta pensare al modo in cui la Merkel si è spesa nella vicenda Opel, o alla mano pesante di Sarkozy sulle imprese francesi dell’auto per farle rientrare da alcune delocalizzazioni per capire quale è l’inettitudine e anche il livello di cottura di questo governo.
3)Molti commentatori anche a sinistra sottolineano come l’accordo sia di fatto inevitabile per restare competitivi nel mondo globalizzato. Tuttavia questa visione sembra implicitamente assumere un progetto di
sviluppo del paese ancora incentrato sulla grande industria. Qual è la sua opinione in merito? E’ sensato puntare ancora sulla FIAT o e’ possibile pensare a un piano di sviluppo credibile che prescinda dall’azienda torinese, anche in considerazione del valore produttivo della PMI nell’economia italiana?
Io vengo dall’Emilia Romagna, regione di PMI e di distretti. Tuttavia un paese come il nostro ha bisogno anche di grandi imprese e sono troppe quelle che abbiamo perduto negli anni passati, nella chimica, nella farmaceutica, nell’elettronica e in altri campi. Anche nell’economia mondo che sta cambiando la sua fisionomia storica sotto i nostri occhi dovremo essere un paese con una industria forte,auspicabilmente adeguata alla rivoluzione verde. Ma un obiettivo di questa portata non è conseguibile con le politiche liberiste e di privatizzazioni seguite in questi anni in Italia e a livello internazionale e che ancora vanno per la maggiore, nonostante siano alla base stessa di questa crisi. Occorre riprendere a riflettere e a impegnarsi su temi come la programmazione, l’intervento dello Stato, la politica industriale, il controllo dei capitali. Tutti temi che fanno tremare le vene nei polsi per la loro difficoltà obiettiva e che è facile demonizzare, soprattutto in Italia evocando le degenerazioni delle Partecipazioni statali dell’ultima fase o peggio l’ombra del socialismo sovietico. Sono temi che fanno gridare allo scandalo i corifei del liberismo e dei mercati autoregolati e sono indigesti anche per i delicati palati di una sinistra liberal, o per meglio dire “neoliberale”, più timorosa di spaventare i salotti buoni e di perdere il consenso dei ceti medi riflessivi, che vogliosa di recuperare i rapporti con i ceti popolari e i lavoratori. Eppure è per me di una evidenza drammatica l’esigenza che la sinistra si doti di un pensiero strutturato, critico verso il capitalismo, autonomo dai dogmi liberisti, o le cose non potranno che peggiorare per il paese e per la sinistra stessa, in particolare per il PD, la cui irrilevanza nella vicenda Fiat è sotto gli occhi di tutti.
4)L’accordo di Mirafiori, così come in precedenza quello di Pomigliano, hanno rappresentato una cesura netta nell’ambito delle relazioni sindacali. Finito il tempo della concertazione, Marchionne ha imposto il suo diktat a sindacati in una posizione di estrema debolezza. Cosa implicano questi accordi per il futuro ruolo dei sindacati nella tutela dei lavoratori?
Lo sconvolgimento delle relazioni sindacali è enorme ed è stato preparato da anni di discussioni e polemiche contro le rigidità e contro lo”strapotere “sindacale, poi contro lo statuto dei lavoratori e infine contro i contratti nazionali. La risposta dei sindacati non ha saputo sempre liberarsi da posizioni corporative che li hanno indeboliti di fronte all’opinione pubblica e li hanno divisi nelle risposte. Poi i progressivi effetti della globalizzazione, con le delocalizzazioni, l’immigrazione, la concorrenza dei prodotti low cost e la completa libertà di movimento dei capitali, hanno avviato una profonda destrutturazione del mondo del lavoro in tutti i paesi capitalistici più avanzati. Bernanke ha coniato in proposito l’espressione “lavoratori traumatizzati”. Nel frattempo è passata in Italia, anche sul piano legislativo, la politica della precarizzazione di massa che ha colpito i settori più deboli del mondo del lavoro, in particolare i giovani, le donne, il mezzogiorno e gli immigrati. Ora siamo a un passaggio decisivo che se non sarà adeguatamente contrastato segnerà un salto di qualità drammatico nella civiltà del lavoro come l’abbiamo conosciuta finora nel nostro paese. Se è vero che c’è una difficoltà nella Cgil e nella Fiom a elaborare una risposta adeguata, anche sul tema della rappresentanza e dei poteri della contrattazione, è anche vero che c’è da parte di Cisl e Uil l’introiezione acritica della cultura e dell’impostazione della controparte, il che apre una faglia che richiederà tempi lunghi per essere sanata. Il 9 gennaio Peter Olney,segretario della Ilwu americana, ha detto a Repubblica: ”Marchionne recita in Italia un copione già scritto qui negli Stati Uniti. Alla Fiat è in atto un attacco ai sindacati che da anni è in atto nelle imprese americane. Guai a sottovalutarne la gravità: la rappresentanza dei lavoratori, l’organizzazione sindacale, sono l’ultimo baluardo contro l’imbarbarimento della società e l’impoverimento della democrazia. Anche i referendum in fabbrica sotto un clima di intimidazione, li conosciamo bene”. A chi è più vecchio vengono in mente gli anni cinquanta quando socialisti e comunisti combattevano per fare entrare la Costituzione nelle fabbriche.
5)Di fronte alla difficoltà di coniugare la difesa di diritti e tutele per i lavoratori con il futuro degli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori e dei posti di lavoro, il PD non è stato in grado di esprimersi con una voce chiara. Come giudica le mosse dei partiti della sinistra rispetto alla questione Fiat?
Ho già accennato al PD. Al suo interno ci sono state voci discordi, ma la linea prevalente è di accettazione del diktat Marchionne,con alcune riserve fra una parte di provenienza DS circa l’esclusione della Fiom dalla rappresentanza aziendale, cui però non pochi aggiungono, con una certa compiacenza, che in fin dei conti la Fiom se l’è andata a cercare. Dubbi sulla validità del piano aziendale? Se ne sentono ben pochi. Preoccupazioni per l’ulteriore peggioramento dei rapporti di forza a danno dei lavoratori? Per la cultura media interclassista prevalente nel PD questo problema non sembra neppure formulabile. C’è stato su l’Unità del 7 gennaio un forte intervento critico di Stefano Fassina contro il piano Marchionne e contro ”i cascami di una fallita cultura neoliberista”con evidente riferimento a una precedente intervista di Veltroni dai toni apologetici nei confronti di Marchionne. Ma l’articolo di Fassina chiude dicendo che non c’è al momento possibilità di scelte alternative perché la sinistra non ha una analisi dei processi in atto, né una proposta all’altezza. Dunque si salvaguardi l’agibilità sindacale e si cominci a pensare al futuro per “riportare il lavoro a fondamento dell’ordine democratico in Italia e in Europa”. Quando cominciamo? E il PD è in grado di farlo? Chi ci sta? Queste sono le domande di verità per il PD, al di là dei politicismi correnti su governi di emergenza, di unità nazionale o di responsabilità repubblicana.
Del Psi non dico nulla, perchè al di là di singole posizioni autenticamente di sinistra di antica matrice lombardiana, è poco più di una parafrasi della posizione Uil, con il solito seguito di contumelie contro il minoritarismo e il radicalismo della Fiom. Sport cui peraltro non si sottraggono molti a sinistra che pure sono contro le posizioni Fiat, ma che non rinunciano neppure in questa occasione a rispolverare antiche polemiche, ben memori del principio della guerra sui due fronti.
E poi c’è Vendola e Sel che hanno assunto ovviamente senza fatica, ma giustamente, la difesa della Fiom e che chiedono al PD di elaborare una piattaforma di opposizione, utile anche per le prossime eventuali elezioni, che interpreti le esigenze dei movimenti di lotta in corso (studenti, precari, operai) per farne il perno dell’alternativa a Berlusconi e di eventuali successive alleanze col centro. Posizione che io ritengo giusta, tanto più se mettesse la sordina alla agitazione strumentale sulle primarie come scorciatoia del confronto politico e si concentrasse di più sui contenuti sui quali sfidare il PD e il sempre più sterile giustizialismo di Di Pietro.
6) Ampliando un pò la prospettiva, la vicenda della Fiat inquadrata nel contesto generale della crisi economica e della globalizzazione economica sembra indicatrice di un cambio di paradigma anche nei rapporti tra Capitale e Lavoro. Il XX secolo sembra essersi portato via tanto il compromesso socialdemocratico quanto l’ultimo trentennio di entusiasmo neoliberista. In quali forme pensi che possa evolversi il conflitto tra capitale e lavoro nel nuovo scenario globale?
Il cambio di paradigma nei rapporti fra capitale e lavoro era già intervenuto negli ultimi trent’anni del XX secolo. Le forze della sinistra non hanno capito per tempo la portata del cambiamento. Anzi le correnti”neoliberali” della socialdemocrazia lo hanno in qualche modo accompagnato e appoggiato, convinte che dalla crescita senza limiti promessa dalla globalizzazione sarebbero derivate ricadute ampiamente compensative anche per i lavoratori e i ceti più poveri. Le cose non sono andate così, come dimostra l’allargamento della forbice delle differenze sociali e la riduzione dell’area del welfare anche in Europa. L’esplosione della crisi del 2007 sta aggravando tutti questi fenomeni, per di più dimostrando la inconsistenza delle teorie che hanno giustificato gli sviluppi di questi anni: la capacità di autoregolazione dei mercati, gli effetti di crescita e di prosperità della finanziarizzazione dell’economia, le magnifiche sorti e progressive del liberismo. Eppure a tre anni dallo scoppio della crisi, con tutti gli indici di disoccupazione in crescita, con il passaggio della crisi dalla finanza all’economia reale e ora ai debiti degli stati,il pensiero economico mainstream è ancora sugli spalti. Mi sembra troppo ottimista considerare tramontato l’entusiasmo neoliberista. In realtà la gestione della crisi a livello europeo è ancora ispirata a quei paradigmi su cui si è basata la costruzione della moneta unica, escludendo al contempo la unificazione della politica fiscale, e anzi sostenendo la concorrenza sulla tassazione dei capitali e sui diritti del lavoro fra i vari stati europei. Ora il progetto europeo è a rischio di saltare per gli squilibri commerciali e di finanza pubblica che non ha saputo evitare, ma la terapia applicata è ancora quella delle privatizzazioni e dei tagli allo stato sociale e alle condizioni dei lavoratori, anche quando l’aumento del debito pubblico deriva palesemente dal trasferimento dei debiti delle banche ai bilanci pubblici. Purtroppo, nonostante a livello intellettuale ci sia una letteratura interessantissima, sia italiana che internazionale, critica del mainstream, ancora queste analisi e le proposte che ne discendono non riescono a incrinare il muro di protezione che circonda quello che negli anni passati veniva chiamato il “Washington consensus”. Basti vedere le difficoltà e gli arretramenti di una politica peraltro non particolarmente coraggiosa,come quella di Obama. In Europa qualcosa si nuove nel dibattito interno alle forze socialiste, molto meno in Italia per la peculiarità del PD. Sta di fatto che, come dimostra anche il caso Fiat, siamo drammaticamente al di sotto delle esigenze. La riprova la si può vedere nella vicenda della lettera degli economisti. Nel giugno scorso più di 200 professori e ricercatori, che potremmo definire in senso lato di orientamento marxista o keynesiano di sinistra, hanno pubblicato un importante documento contenente una serie di proposte politiche per una risposta alla crisi a partire dal livello europeo. La sintesi del documento la si può leggere nel suo sottotitolo: ”La politica restrittiva aggrava la crisi, alimenta la speculazione e può condurre alla deflagrazione della zona euro. Serve una svolta di politica economica per scongiurare una caduta ulteriore dei redditi e dell’occupazione”. Ritengo quel documento ancora il contributo più organico, fra quanti mi è capitato di leggere, per una nuova politica della sinistra in Italia e in Europa. Eppure la sua eco è stata finora molto debole, col rischio che esso finisca per alimentare solo il dibattito accademico. L’impegno della sinistra, anche di quella cosiddetta “radicale”, sul merito di questi problemi mi pare ancora troppo vago. E’ vero che ,come ha detto Keynes, ”le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate che siano, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”. Tuttavia la gravità dei problemi che sono di fronte a noi dovrebbe indurre una accelerazione nel ripensamento critico della sinistra, anche perché, tornando a Keynes,”nel lungo periodo siamo tutti morti”!
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