[Labouratorio n.53] Prendere E lasciare
giovedì 13 gennaio 2011 | Scritto da Redazione - 1.498 letture |
Clamoroso! Rivoluzione nella notte a Labouratorio. Terribile spaccatura nella redazione tra i cosiddetti marchionnisti (che fa rima con minchionnisti n.d.Plex) e i partigiani della FIOM. Volano piatti e parole grosse finche’, a tarda notte e viene bloccato un primo editoriale. Alle 3 della notte il colpo di scena. Una telefonata internazionale da Firenze a Londra. Al telefono il direttore, di pirsona pirsonalmente: “Facciamo l’editoriale a quattro mani, prendere e lasciare”. Dall’altra parte una voce rotta: “eh, se la metti cosi’ prendo che devo fare”. “Ma no asino, prendere E lasciare, e’ il titolo di Labouratorio 53!”. Ed eccoci qua, di nuovo.
PRENDERE
Strani riformisti quelli italiani. Strani proprio gli italiani. Dicono tanto spesso che le cose in Italia non vanno, ma quando uno prova a cambiarle subito si spaventano. Fantastici.
E invocano la politica, come se nella questione Mirafiori la politica dovesse far chissà cosa. L’Italia ha tanti difetti, ma se Dio vuole ancora non è l’Unione Sovietica degli anni Cinquanta. Con buona pace di molti. Lasciamola perdere la politica e i politici. Che dopo la sortita vagamente sciacallesca di Nichi Vendola a Mirafiori di ieri (mercoledì 12 gennaio) se ne può fare tranquillamente a meno.
Qua c’è una azienda che dice ai propri lavoratori che per continuare a produrre è necessario accettare condizioni diverse rispetto a quelle finora in vigore. Condizioni che non peggioreranno le retribuzioni dei lavoratori, anzi, con un po’ di ore di straordinario ne miglioreranno la retribuzione annua. Condizioni che non sono di schiavitù, come pure qualcuno cerca di vendere. Sono condizioni che s’impongono se si vuole aumentare il ritmo produttivo, non dissimili rispetto a quelle che già altri colleghi dei nostri metalmeccanici hanno accettato. Non colleghi cinesi o pakistani, ma colleghi tedeschi e americani. Sono condizioni simili a quelle che in Italia sono già state accettate da lavoratori di altri comparti.
Stiamo parlando, inoltre, di condizioni che già la maggioranza dei sindacati hanno ritenuto accettabili, ma che una parte minoritaria, politicizzata e antistorica del sindacato, usa per condurre la sua ennesima battaglia di retroguardia. E la speranza è che sia l’ultima. Per loro. Perché mantenere questa piccola enclave di barricadieri del niente è un lusso che questo paese non può più permettersi. Per cui o costoro trovano il modo di far pace con la realtà o è bene che scoprano davvero il lavoro. Andandosene a cercare uno.
Per finire una parolina su quei brillanti analisti che dicono: “Marchionne se ne vuole andare? Allora restituisca tutti i soldi che deve allo Stato italiano”. Fenomeni. E’ vero la Fiat ha ricevuto aiuti. Così come li hanno ricevuti migliaia di altre aziende italiane. Ne ha ricevuti certo di più e in molti modi, non ultimi quelli sotto forma di cassa integrazione. E allora che facciamo, chiediamo soldi indietro anche agli operai Fiat? Per favore non scherziamo.
La Fiat è stata quello che è stata. Ma negli ultimi anni è cresciuta soprattutto all’estero, acquisendo lentamente la fisionomia di un gruppo multinazionale più che italiano. Può quindi scommettere di non essere più la vecchia Fiat. Può cercare di essere altro. Sarebbe bene che ci riuscisse.
Chi racconta che invece non può che essere ciò che è sempre stato si rassegni. Quel mondo è finito. L’alternativa è tra cambiare o scomparire. Chi vuole scomparire s’accomodi. Ma faccia la cortesia di non portare altri con sé.
LASCIARE
Non è certo compito nostro metterci nei panni dei lavoratori chiamati domani a scegliere se firmare o meno l’accordo propostogli dall’amministratore delegato della FIAT Marchionne. Ma in una valutazione complessiva delle prospettive dell’azienda torinese non avremmo esitazione alcuna a dire che un futuro roseo proprio non lo vediamo. Anzi, non vediamo nessun futuro.
E non tanto e non solo perchè poco abbiamo capito del piano di rilancio “Fabbrica Italia” con cui l’ad ha promesso di investire fino a 20 miliardi di euro in cinque anni, ma dei quali ha però spiegato come utilizzerà solo i primi due (1 miliardo circa per Mirafiori, poco di meno per Pomigliano) per lanciarsi nella produzione di poco innovativi SUV per il mercato americano. Nemmeno perchè continuiamo a leggere dati allarmanti di ulteriori e continue perdite di quote di mercato (attenzione non un semplice calo delle vendite dovuto alla crisi, la Fiat perde relativamente di più rispetto ai suoi concorrenti più competitivi). Possiamo anche resistere alla tentazione di insospettirci dell’accanimento e della fatica con cui Marchionne si premura di portare a casa accordi sindacali contestati e contestabili che sicuramente non modificano sostanzialmente il già limitato impatto del costo del lavoro sul costo finale del prodotto (eh si perche’ la vera rottura di Marchionne non e’ nella sostanza, ma nel metodo, del diktat e del ricatto, che vuole imporre al sindacato e al mondo del lavoro nel silenzio complice di una classe politica asservita e insulsa). Nemmeno vogliamo farci influenzare, ignoranti come siamo dei giochetti finanziari più intriganti, dal recente scorporo a uso della borsa del settore auto. Vogliamo credere che non ci sia nulla dietro. E vogliamo essere buoni anche con i successi d’oltreoceano del manager “modernizzatore” pagati dal contribuente americano, o della meravigliosa capacità d’investimento in paesi come la Serbia, su un soffice terreno concimato di incentivi e agevolazioni.
La verità è che abbiamo buona memoria, e ci guardiamo intorno. E sappiamo che l’azienda di Torino è stata per tutta la sua lunga storia un’azienda di stato, mantenuta, protetta, coccolata sotto l’ala protettiva dei governi di ogni colore che se ne servivano per dare lavoro e ottenere consenso, garantendo in cambio una sopravvivenza altrimenti impossibile. E ora che questo non è più possibile per le regole della globalizzazione, ci sembrerebbe di fare torto alla nostra intelligenza a ritenere realistica la trasformazione improvvisa di una figlia unica viziata in una donna matura e professionalmente affermata.
Vieppiù in un contesto internazionale dove è sempre più palese che ci saranno sempre dei cinesi che produrranno a costi più bassi dei tuoi e dei tedeschi che faranno prodotti migliori e più all’avanguardia. Inseguire la strada della cinesizzazione si può solo per poco tempo. La strada più difficile dell’innovazione tecnologica e dell’investimento nella ricerca, non ci è stata nè annunciata nè mostrata.
Per questo tra prendere una cantonata e lasciare ogni illusione, non abbiamo dubbi nel lasciare.
Tommaso Ciuffoletti_31 anni. Schiavo. Servo dei padroni. Metrappansè. Stronzo. E’ Labouratorio. O almeno il suo direttore (ir)responsabile.
Andrea Pisauro_ 26 anni, sta a Londra parlando un inglese indecifrabile che peggiora giorno dopo giorno. Tutte le domeniche cerca la curva sud a Highbury non trovandola mai. E’ il vicedirettore di Labouratorio. Quello responsabile.
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