[LABOURACOULTURA] A colloquio con Claudio Rocchi: Ancora una volta “la realtà” non esiste!
martedì 4 novembre 2008 | Scritto da Redazione - 1.777 letture |
di Antonello Cresti
A volte mi chiedo perché mai continuo a voler “esporre” agli altri la mia musica… Troppi avvenimenti mi indicano che farei meglio a vivere il Suono come esclusiva esperienza personale. Eppure, ci sono dei bellissimi ricordi che sono indissolubilmente legati al fatto che io sia “un musicista”… Negli ultimi anni ho avuto l’occasione di conoscere, frequentare amichevolmente una serie di artisti che erano stati per tanti anni miei compagni di viaggio e che da sempre avrei voluto incontrare…
Un esempio tra tutti: avere a che fare con Claudio Rocchi, che in Italia E’ la psichedelia è stato ed è bellissimo, coinvolgerlo nelle mie opere è stato un grande onore, ritrovare tracce del mio percorso nel suo lavoro è invece quantomeno appagante (è successo nella colonna sonora del film di cui stiamo per parlare).
Da qualche anno il virus cinematografico sembra essersi impossessato di alcuni tra i nostri artisti più sensibili: è il caso di Battiato (già giunto al terzo film), come del nostro Rocchi che, fuggito da decenni di vita metropolitana a Milano, si è stabilito in Sardegna.
“Pedra Mendalza” è il titolo del suo primo film, un’opera che è intrisa dei sapori di una Sardegna magica, arcaica, misteriosa. Questa presenza storica e culturale così forte porta l’autore ad aver definito questo parto una “docu-fiction”…
Rocchi al solito si diverte a rimescolare le carte; il comune spettatore non si faccia traviare da definizioni che rimandano a ben altre trite avventure televisive e si abbandoni a questo flusso visivo che tanto ricorda di certa musica del Rocchi passato… E’ un bombardamento di immagini, di colori, di sensazioni, sempre però lontani dallo sterile avanguardismo di opere simili.
Chi ha letto Renè Daumal o chi ha già apprezzato un buon Jodorowsky d’annata si troverà a suo agio, ma va pur detto che Rocchi è tutto fuorché un passatista… conosce perfettamente i linguaggi multimediali, i videoclips più estremi e riversa tutto questo bagaglio di conoscenze, o meglio entusiasmi, in questa sua ennesima avventura.
E’ cinema per la mente, un po’ come il “Niente è come sembra” di Battiato, ma se in quel caso la dimensione era ascetica, minimale, quasi Bergmaniana, qui tutto è portato vicino al limite ed alla fine della visione ci sentiamo ebbri come dopo una lunga, coraggiosa scalata.
Claudio Rocchi è uomo di un passato colorato e gioioso, ma dimostra ancora una volta di essere nostalgico di un’unica dimensione: il futuro.
Non biasimiamo coloro che non sanno di chi stiamo parlando dunque riportiamo a corredo della breve recensione un vecchio dialogo avuto con l’artista milanese. Speriamo ce ne saranno altri…
Quando e come è nata la tua vocazione musicale?
-In un giardinetto a Bordighera,all’età di 5 anni,durante una passeggiata con una amichetta della quale ero innamorato:nel silenzio generale colsi l’eco dei nostri passi.Questo è il ricordo più antico che ho del suono.
Il tuo esordio avviene con gli Stormy Six,gruppo che poi avrebbe raggiunto un successo,ma battendo strade ben diverse (impegno sociale,militanza) dalle tue.Come ti trovavi in questo collettivo di musicisti?
-Io lì mi ci sono ritrovato poichè nel ’65 -’66 andai semplicemente a vederli suonare dal momento che erano uno di quei nomi che nel “giro” di Milano mi incuriosivano di più.Mentre li guardavo,un ragazzo mi riconobbe come il bassista degli Sconosciuti quale allora ero,e mi propose di entrare negli Stormy Six (poiché stavano appunto cercando un bassista).Solo in seguito ci fu l’occasione di incidere un disco (“Le idee di oggi per la musica di domani” 1969 ndR) nel quale compaiono le mie prime composizioni.
Con loro sono entrato nella casa discografica Ariston ed ho cominciato anche a lavorare come autore.
Il tuo discorso musicale individuale inizia con “Viaggio”,il tuo lavoro più cantautorale che in nuce contiene diverse tue tematiche storiche.Quale era il tuo mondo letterario di riferimento?
– Prima di Lao-Tze essenzialmente Novalis,Ferlinghetti e la Beat Generation.Soprattutto mi rifacevo a quel mondo lirico che si affermava attraverso l’universo folk rock dei sixties (Donovan,Roy Harper,Beatles…)
Tra “Viaggio” e “Volo Magico” in effetti c’è un mondo immaginifico che muta radicalmente e testualmente e nell’approccio aperto e improvvisativo della musica.
– “Volo Magico” era una larga circolazione di incontri ed intenti vissuta in modo giocoso e rivoluzionario (nel senso profondo del termine).Era una precisa cosa in un preciso momento.
Dello stesso periodo è il 45 giri “Vado in India” a testimonianza della fascinazione che la cultura indiana ha avuto su di te.
– Certo.Ma non solo a livello concettuale;l’ascoltare per la prima volta fisicamente il suono del sitar era già in sé una esperienza psichedelica.E anche da lì nasce questa fascinazione.
Passando a “Essenza” questi temi vengono trattati con maggior consapevolezza. In particolare mi pare azzeccata l’idea della “musica attraverso” il collettivo che aveva lavorato nell’album.Cosa ricordi della genesi creativa di questo lavoro?
-Il gruppo del “Volo Magico” aveva incontrato difficoltà tecniche e organizzative e quando dovette tornare in studio per un nuovo disco improvvisamente ci fu una defezione totale di tutti gli altri.Nell’arco di poche ore mi industriai:chiamai Mino Di Martino e gli chiesi di portare con sé dei musicisti…Tutto questo due ore prima di registrare.Si creò una sintonia ed una vicinanza di mondi bellissima e concordo con te nel ritenere “Essenza” il mio lavoro più rappresentativo.
La libertà è la chiave di lettura di quel disco.Ne “Il miele dei pianeti,le isole,le api” progettualmente il discorso è simile (vi parteciparono parte degli Aktuala tra gli altri ndR) ,ma non essendo un album che nasce dal divenire si avverte una certa scollatura nell’intento primigenio.
-Si,è assolutamente così.Questa esperienza nasce da stima personale verso gli altri amici,ma il momento era più confuso.
Cosa pensavi della scena musicale italiana?
-Un gran bene all’inizio…C’erano bands come il Balletto di Bronzo, Le Stelle di Mario Schifano. Poi i Latte e Miele, Garybaldi ed un mondo veramente sfaccettato.
Era un periodo pieno di occasioni creative, di festivals…
C’erano cose con un gusto molto garbato che apprezzavo come ad esempio i Saint Just (il gruppo della sorella di Alan Sorrenti, Jenny ndR)
Giordano Casiraghi ha scritto che dopo le tante domande poste sui tuoi primi album ,la risposta sembra essere il silenzio di “Rocchi” e “Suoni di frontiera”.Ti senti di condividere?
-Se il silenzio è il silenzio delle parole è benvenuto!
“Suoni di frontiera” nasce dall’intento di cercare relazioni tra suono e le energie in maniera trasformativa (esemplificativi sono i seminari di musica psichica del periodo ndR)
E’ il periodo anche dell’incontro con Demetrio Stratos,con cui ho condiviso molte intuizioni sul mondo dell’avanguardia applicato a questi modi e fenomeni.
Il periodo conclusivo degli anni ’70 coincide con il passaggio alla Cramps.Due album abbastanza discordi in cui si passa dalle orchestrazioni pesanti di “A fuoco” alle decostruzioni scarne di “Non ce n’è per nessuno”…Come giudichi creativamente questo periodo?
-Nel secondo caso c’è senza dubbio l’approccio ad una musicalità fresca ,mentre in “A fuoco” mi sono voluto misurare per la prima volta in vita mia con l’orchestra… Il risultato non è a mio avviso soddisfacente.
Anche i testi sono singolari in “A fuoco”,poiché riflettono un periodo,si calano nella realtà sociale,raramente comunicano buone vibrazioni.
-E’ vero.Sono energie negative del periodo che sono entrate.Hai ragione.
Dal ’79 al ’94 c’è il tuo ritiro dalle scene con l’entrata negli Hare Krsna.Però paradossalmente il tuo best seller di sempre “Un Gusto superiore” (con l’ex Area Paolo Tofani) risale proprio a questo periodo.Cosa eri allora? Un semplice diffusore in musica di un messaggio o conservavi ancora le tue unicità artistiche?
-Ero ancora un musicista senza dubbio.Penso che ci siano cose gradevoli e piacevoli anche in quel periodo.
Qualche scheggia è finita anche nella raccolta di inediti “I think you heard me right”
…Un salto nel passato in cui ti sei riappropriato con maggiore maturità del tuo passato.
-Certo.Soprattutto con “Sulla soglia”
Che è quasi uno studio.
-Si,bravo.
Nel 1994 finalmente il ritorno con il tuo album omonimo,il primo, in cui ti riproponi ai vecchi,come ai nuovi ascoltatori che avrebbero voluto seguirti.Come hai ritrovato il mondo musicale dopo 15 anni di assenza?
-Non c’è stato mai un momento reale di coesione ed è lì la differenza vibrazionalmente.Nella scrittura ci sono bei momenti,l’esecuzione non mi dà grosse emozioni.Io avrei voluto fare cose più ruvide e grezze,ma il produttore Lucio Fabbri indirizzò il lavoro su versanti pop…
Direi che sei un attento conoscitore della mia discografia!
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