[La fine…della II Repubblica] Il fantasma della nuova DC
mercoledì 9 novembre 2011 | Scritto da Redazione - 2.694 letture |
In principio furono gli stessi carnefici della Democrazia Cristiana: il superpiemme di Tangentopoli, Antonio di Pietro, e il referendario Mario Segni, che quasi ancora non avevano finito di officiare la catarsi collettiva della nascita della Seconda Repubblica, vennero ciascuno da par suo da più parti accreditati come possibili protagonisti, in forme varie e spesso fantasiose, dell’immediata formazione di una nuova balena bianca.
Di Pietro nemmeno ci provò: trattò per fare il ministro con Berlusconi, poi si candidò al Mugello con l’Ulivo, e il resto è storia dei giorni nostri. Segni forse ci puntava, in astratto, ma si perse tra estemporanee liste personali e improbabili progetti di federazioni.
Da allora sono passati quasi vent’anni, eppure il fantasma della nuova DC ritorna ciclicamente di attualità, ogniqualvolta sembri imminente un cambio di stagione nella politica italiana, quasi a rappresentare l’eterna incompiutezza di una Seconda Repubblica che, forse proprio perché taumaturgica nelle intenzioni, vive da anni trascinando la lamentosa cantilena del proprio stesso fallimento.
Casini da sempre dichiara che è quello, in fondo, l’approdo a cui mira, ma ben si guarda dal tentare davvero l’affondo, e più che cercare il “Grande Centro” consolida un piccolo o medio centro, solido e ben organizzato come certe imprese a conduzione familiare che però non pare avere, di conseguenza, intenzioni e potenzialità particolarmente aggressive.
Tuttavia alcuni giorni fa le dichiarazioni del cardinal Bagnasco hanno posto nuovamente la questione del ritorno dei cattolici all’impegno politico unitario.
In effetti l’ipotesi di una rivendicazione di autonomia dei cattolici rispetto al sistema bipolare trova qualche sponda nella cronaca delle ultime settimane: mentre il governo si vede voltare le spalle dalla Conferenza dei vescovi, solitamente non ostile, nel PD scalpitano diverse generazioni di post DC: il solitamente austero Parisi dichiara nientemeno che il fallimento della linea politica del segretario, mentre il seguitissimo blogger Mario Adinolfi restituisce la tessera dichiarando che l’unica speranza rimane il (guarda un po’) cattolico Matteo Renzi che dal canto suo, non è un segreto, nelle proprie aspirazioni di grandeur al grande centro guarda eccome.
Ma è davvero possibile una riproposizione, sia pure in forma nuova, della vecchia DC? Se con questo intendiamo le formazione di un partito capace di riunire e rappresentare in modo unitario tutti o quasi cattolici italiani, io credo sia molto difficile, se non impossibile, per una serie di ragioni riconducibili ad un semplice concetto di fondo: anche i cattolici si sono “bipolarizzati”, ben più in profondità di quanto si tenda a credere.
La storia del cattolicesimo italiano è la storia dell’Italia stessa, e quindi i rivoli del suo flusso sono innumerevoli e intrecciati, ma si può tentare di ricondurla a due filoni principali: esiste un cattolicesimo che potremmo definire normativo e gerarchico, la cui tradizione teologica e filosofica è di natura essenzialmente giuridica. Questa tradizione in politica tende naturalmente a tradursi in posizioni conservatrici, come quelle, spesso al centro del dibattito pubblico, della Conferenza episcopale sui diritti individuali e sulla libertà scientifica.
Questa prospettiva, storicamente prevalente nelle gerarchie ecclesiastiche, venne messa seriamente in discussione dal Concilio Vaticano II (anche se adesso va di moda dire di no, che è stato tutto uno spiacevole equivoco…), ma durante il pontificato di Giovanni Paolo II fu progressivamente “restaurata”, e ad oggi ispira la quasi totalità del discorso pubblico e delle posizioni ufficiali vaticane. La società civile italiana è però innervata da un secondo cattolicesimo, che trova fondamento in un approccio mistico e spirituale, e quindi soggettivo, dell’esperienza religiosa, e di conseguenza alle regole etiche tende ad anteporre l’etica della coscienza individuale. Particolarmente presente nell’associazionismo e nel terzo settore, e quindi legata ad una spiccata sensibilità su temi sociali, questa tradizione ha spesso come esito un pensiero progressista, sprezzantemente sintetizzato qualche anno fa da Silvio Berlusconi con l’etichetta di “cattocomunismo dossettiano”.
Le radici filosofiche di questa biforcazione, sono in realtà antiche come la religione stessa, e si sviluppano attraverso i rapporti tra i concetti di verità e libertà e, di conseguenza, di autorità.
All’approfondimento di questo solco di demarcazione si deve la fortissima perdita di quell’aspirazione all’universalità che la Chiesa da qualche decennio pare aver barattato con un incremento del proprio potere politico ed economico. Basta scendere per strada e ascoltare qualche conversazione al bar o alla fermata dell’autobus, per rendersi conto che sulla chiesa ormai scarseggiano le posizioni intermedie: c’è chi aderisce alle posizioni della chiesa e si identifica nelle sue gerarchie e chi da esse si sente minacciato nelle proprie libertà, e pertanto vi guarda con ostilità. Se questo fenomeno sia il frutto di scelte e compromessi chiari e deliberati da parte delle gerarchie ecclesiastiche o di una sclerotizzazione, in tutti i sensi possibili, delle gerarchie stesse, è questione interessante ma che lasciamo a chi ha maggiore conoscenza delle vicende interne al Vaticano.
Quello che però mi pare importante rilevare è che nessuno di questi “due cattolicesimi” ha probabilmente le forze necessarie a costituire da sola un “grande partito” simile alla Democrazia Cristiana, la cui forza è stata per molti anni proprio nella capacità di far convivere al proprio interno queste due anime. Già nella DC di De Gasperi nacque la corrente di Giuseppe Dossetti, che contava al proprio interno personaggi di primissimo piano come Fanfani, La Pira e Lazzati (di loro anni dopo Montanelli ebbe a scrivere che: “erano gli uomini più onesti dello scudocrociato (…) Ma, salvo Fanfani (…), gli altri tre avevano gli occhi troppo levati al cielo per accorgersi della fogna in cui i loro piedi stavano guazzando”).
La “sinistra democristiana” attraversò tutta la storia del partito, diventando anche a più riprese maggioranza interna, sempre però in una logica di contrapposizione al PCI. Il logoramento politico che ha portato alla fine della DC ha avuto però inizio proprio a metà degli anni Settanta quando, con le segreterie di Zaccagnini e Moro e con l’ipotesi del compromesso storico e la solidarietà nazionale, la coesione strategica tra le correnti DC iniziò a sfilacciarsi irrimediabilmente, perché, proprio nel nodo del rapporto col PCI, le differenze culturali erano diventate una volta per tutte differenti linee politiche.
Nonostante un nuovo periodo unitario negli anni ottanta, la caduta delle Prima repubblica e la nascita del bipolarismo hanno visto i cattolici dividersi naturalmente tra le due parti della barricata, determinando probabilmente una radicalizzazione delle differenti posizioni in campo etico, sociale, politico ed economico che nel cattolicesimo sono sempre esistite.
Difficilmente quindi l’imbarazzo per gli scandali personali del premier, da una parte, o la preoccupazione per le presunte derive massimaliste cui potrebbe andare incontro un Nuovo Ulivo, dall’altra, potranno essere un collante sufficiente per portare i cattolici in politica a staccarsi dalle opposte fazioni e tornare a costruire una casa comune. E nemmeno una leadership tecnica e laica come quella, ad esempio, di Montezemolo, potrebbe nascondere facilmente le lacerazioni inasprite da anni di scontro, spesso sterile ma comunque isterico nei toni, su diritti civili, libertà individuali, etica della politica.
La Seconda Repubblica, con le sue contraddizioni e i suoi fallimenti, ha avuto senz’altro un esito rilevante: il bipolarismo non si è fermato al sistema dei partiti ma è entrato nel modo di ragionare e di vedere la politica di molti italiani e, ho il sospetto, anche di molti cattolici. Mi sembra difficile quindi che il sistema politico di un’ipotetica Terza Repubblica possa tornare indietro alla Prima come se nulla, negli ultimi vent’anni, fosse successo.
Stefano Piri nasce a Genova il giorno in cui a Bel Air muore Truman Capote. Dopo un lungo percorso di autocoscienza si rassegna al fatto che si tratta solo di una coincidenza. Compie tra Genova e Torino un imperscrutabile ciclo di studi tra relazioni internazionali, cinema ed editoria. Oltre a questo gli piacciono la politica, la musica, lo sport e alcune persone. Quando ha tempo scrive, un po’ di tutte queste cose
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