[Lab intervista Baccaro] I sindacati? Destinati a scomparire
giovedì 14 aprile 2011 | Scritto da Nicolò Cavalli - 2.433 letture |
Lucio Baccaro è docente di Macro-sociologia presso l’Università di Ginevra dopo una laurea “summa cum laude” in filosofia presso La Sapienza, un MBA, un dottorato a Pavia e un secondo dottorato al prestigioso MIT, Massachusetts Institut of Technology. Dal 2004 al 2005 e’ stato ‘Head of Research’ presso l’istituto di ricerca dell’International Labour Organization (ILO). I suoi interessi si focalizzano sull’interazione tra forze economiche e sociali, e sul modo in cui tale interazione modella le norme che regolano le società capitalistiche contemporanee, con particolare attenzione al mondo del lavoro e al welfare state. E’ con orgoglio che Labouratorio presenta questa intervista.
Professor Baccaro, in che relazione i risultati del suo articolo si pongono con la letteratura precedente sul tema?
La letteratura precedente considera il corporativismo, un tema molto caldo alcuni anni fa, poi sostanzialmente abbandonato, come un capitolo chiuso. Questa ricerca mostra che il corporativismo e’ vivo e vegeto come forma istituzionale, ma non costituisce piu’ un’alternativa negoziata al modello di capitalismo liberale dominante. Semmai favorisce l’approvazione di riforme di impronta neoliberale anche in paesi istituzionalmente ‘densi’ come i paesi dell’Europa continentale.
La sua analisi mette in luce come il “nuovo corporativismo” sia associato ad effetti minori di riduzione della diseguaglianza e anzi ad una redistribuzione del rischio dal capitale al lavoro e del reddito dal lavoro al capitale. Questo processo appare come un processo irreversibile? Avrebbe senso pensare di tornare ad un modello improntato sul “vecchio corporativismo”?
Chi fa scienza sociale si comporta come la ‘nottola di Minerva’, che si leva sempre sul far del tramonto, ossia guarda al passato piu’ che al futuro, e nessuna delle scienze sociali e’ particolarmente brava a fare previsioni. Tuttavia, sulla base di quel che sappiamo, il ritorno a modelli di corporatismo nazionale redistributivo sembra assai improbabile, a meno che il quadro dell’economia internazionale non cambi radicalmente. A dirla in breve, occorrebbe che gli effetti della globalizzazione si annullino, che si ritorni ad un quadro macroeconomico simile a quello degli anni ’70 con uno spazio ed un’autonomia per politiche economiche nazionali assai maggiori che nella situazione attuale, dei sindacati molto piu’ forti e rappresentativi, e oltre a questo occorrerebbero parecchie altre cose.
Buona parte del dibattito oggi riguardante i sindacati, ma più in generale le riforme sociali ed economiche, si rimettono alla contemplazione dell’oggettività dei processi economici globali, i quali imporrebbero ben precise scelte. Quanto questo discorso è, appunto, “oggettivo” e quanto invece frutto di una determinata volontà politica? Insomma, esiste uno spazio per politiche di segno opposto rispetto a quelle teorizzate dal Washington Consensus o esse sono dettate dalla cogenza delle trasformazioni strutturali dell’economia internazionale?
Io sono dell’opinione che i vincoli dell’economia internazionale siano abbastanza cogenti e che gli attori nazionali, malgrado le differenze di impostazione ideologica, facciano sostanzialmente le stesse cose. Le differenze ci sono, ovviamente, ma sono piu’ di dettaglio che di sostanza. Questa opinione non e’ condivisa da molti, direi la maggior parte, dei miei colleghi che si occupano di questi fenomeni, per i quali non c’e’ nessun processo di convergenza tra modelli nazionali. Io penso che perche’ politiche di segno opposte rispetto a quelle mainstream siano fattibili e’ necessario che cambi profondamente il quadro macroeconomico internazionale. Gli effetti della crisi finanziaria internazionale, e soprattutto i tentativi di riregolazione della finanza internazionale, avrebbero potuto determinare questo tipo di situazione. Ma mi sembra che la finestra di opportunita’ si sia ormai chiusa. Detto questo, occorre distinguere tra ragione e volonta’, tra quel che e’ fattibile, e quel che e’ auspicabile. Un operatore politico fa quel che ritiene possibile dati i vincoli che si ritrova davanti. Un idealista articola un nuovo sistema di valori, indipendentemente dalla loro praticabilita’. Se tutti gli attori politici internalizzano i suddetti vincoli, se nessuno si mobilita per metterli in questione, allora nessun cambiamento e’ possibile. E’ per questo che i movimenti di mobilitazione collettiva, anche ‘ingenui’, sono per me estremamente importanti. Solo se un numero sufficiente di individui crede che c’e’ un’alternativa, per quanto irrealista essa possa sembrare, l’alternativa esiste.
La crisi organizzativa in cui si trovano oggi i sindacati è testimoniata da una forte diminuzione del numero di iscritti e probabilmente anche della fiducia nel loro operato. Lei tuttavia sostiene che il movimento sindacale continua a rimanere una forza fondamentale per la “organizzazione” dell’uguaglianza in una società. E’ allora possibile che i sindacati escano dalla crisi in cui si trovano? E come?
Non so se i sindacati usciranno dalla crisi di rappresentanza, che e’ profonda e che tocca tutti i movimenti sindacali nazionali che conosco, compresi quelli dei paesi in via di sviluppo. Sicuramente non e’ un problema soggettivo, di strategia: se fosse un problema di strategia, per ragioni puramente statistiche, qualcuno troverebbe la giusta via. La mia previsione (fallibile, come tutte le previsioni) e’ che tra cento anni si parlerà dei sindacati nella stessa maniera in cui parliamo ora delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi agricoli: una volta erano estremamente importanti, oggi esistono ancora ma sono marginali. Sicuramente la scomparsa dei sindacati sara’ un fenomeno graduale e per molti anni ancora gli attori politici si troveranno a fare i conti con loro.
Per quale motivo i sindacati si sono trovati ad accettare e gestire riforme che, fino a poco tempo prima, nessuno avrebbe pensato ipotizzabili? E com’è possibile che non vi sia stata una forte opposizione del tessuto sociale, ma anzi una sostanziale accettazione delle stesse?
La risposta e’ quella offerta da Margaret Thatcher: ‘There Is No Alternative’ (TINA). Se ci mettiamo dal punto di vista dei decisori sindacali non e’ che le alternative fossero particolarmente invitanti. Prendiamo il caso dell’Italia. Se i sindacati non firmano la riforma delle pensioni del 1995 o del 2007, ci sono buone possibilita’ che torni Berlusconi (o chi per lui) e ne faccia una ancora piu’ penalizzante.
Che dialettica c’è stata, nel movimento sindacale, tra i gruppi favorevoli a tentare di “governare” le riforme neo-liberali e invece le frange minoritarie e riottose? Vi è stato un vero dibattito di prospettiva e strategia? E quanto hanno influito, in questo processo, le posizioni dei partiti storicamente più vicini ai sindacati?
La mia impressione e’ che a livello politico non ci sia stato nessun dibattito vero: la sinistra italiana, storicamente una fucina di innovazioni culturali cui hanno attinto i politologi internazionali per decenni, non ha proposto nessuna analisi innovativa, ha semplicemente interiorizzato le ricette neoliberali dominanti – per esempio che la disoccupazione e’ dovuta a rigidita’ del mercato del lavoro, che la crescita richiede ‘riforme strutturali’ (ma cosa saranno mai?), ecc. – cercando di renderle socialmente piu’ gestibili e digeribili. In generale, si e’ proposta di governare i processi di ristrutturazione internazionale. Al massimo ha abbracciato l’ideologia della terza via elaborata altrove, tutta centrata sul miglioramento delle opportunita’ individuali di impiegabilita’ e di sviluppo del capitale umano. Occorre dire tuttavia che in Italia lo spazio di azione politica autonoma e’ reso ancor piu’ limitato che altrove dall’enorme peso del debito pubblico. A livello sindacale ci sono invece delle frange di resistenza, sempre piu’ limitate in termini numerici, e da decenni ridotte alla sola CGIL, ma non mi sembra che queste frange abbiano saputo produrre molto piu’ che la difesa della cittadella assediata delle situazioni pre-esistenti.
Nel suo articolo, Lei afferma che la partecipazione dei sindacati ai tavoli del policy-making ha fatto in modo che le categorie maggiormente rappresentate nelle strutture sindacali stesse (i cosiddetti insider), siano stati toccati in maniera minore rispetto ai lavoratori appartenenti a categorie non sindacalizzate, come giovani e lavoratori temporanei. A cosa può condurre, anche in prospettiva, questa dialettica tra insider e outsider?
E’ una situazione molto pericolosa per il sindacato. Se perde, oltre ai membri, la legittimita’, se (come negli Stati Uniti) e’ percepito come ‘special interest’ invece che portatore di interessi e progetti almeno potenzialmente generali, il sindacato e’ finito. Ma e’ anche una situazione molto difficile da gestire. Il riequilibrio tra insider e outsider richiede una ridistribuzione interna. Questa e’ molto piu’ facile da attuare quando il paese cresce del 3% all’anno. Si tratta di far crescere di meno i gruppi piu’ favoriti, e di piu’ gli altri. Ma quando, come dal 1992 a questa parte, il paese e’ fermo il riequilibrio richiede perdite secche per qualcuno, e questo e’ molto difficile per qualsiasi organizzazione, non solo il sindacato.
Anche a causa della cristallizzazione dei benefici in ambito lavorativo, le giovani generazioni si trovano spesso ai margini del mondo dell’impiego. Cresce il fenomeno dei NEET (not in employment, education or training) e la disoccupazione in Italia raggiunge il 28% nelle fasce d’età giovanili, tanto che da molti viene sostenuto come il vero sistema di welfare italiano sia la famiglia. In questo modo, tuttavia, il vincolo di dipendenza tra figli e genitori si solidifica e si protrae nel tempo, al rischio di intaccare l’autonomia delle giovani generazioni. Potrebbe essere la disponibilità di questo paracadute a fare in modo che gli outsider non riescano ad organizzarsi per la difesa dei propri interessi?
Certo, la presenza di forti legami di solidarieta’ endofamiliare, con la pensione del nonno che sovvenziona la disoccupazione o inattivita’ del nipote, potrebbe spiegare perche’ gli esclusi non percepiscano ancora la situazione come catastrofica, e quindi perche’ non si organizzino per cambiarla, anche solo come semplice meccanismo di difesa. Tuttavia, le teorie principali sulla mobilitazione collettiva sostengono che quel che spiega meglio la mobilitazione collettiva non e’ la presenza di ‘grievances’, ossia di situazioni di disagio, ma di forme organizzative pre-esistenti anche se legate ad altre tematiche, e di risorse associate. E’ una situazione che non so spiegarmi, se non ricorrendo a categorie molto generali di stampo culturalista: il fatto che l’Italia, soprattutto al Sud, sia un paese rassegnato, che non ci sia mai stato un processo di mobilitazione nazionale, che l’attitudine generale sia quella del ‘piegati giunco che passa la piena’.
Se il policy-making corporativo di “nuova generazione” si è dimostrato deleterio per il welfare delle nazioni in cui questo è stato maggiormente attuato (come in Italia, dove il 45% del reddito è detenuto dal 10% della popolazione), quale altro tipo di assetto delle relazioni industriali è immaginabile? Esiste la possibilità di sviluppare un nuovo e differente modello di organizzazione del lavoro nei paesi considerati?
Non direi che il policy-making corporativo sia stato deleterio. Semplicemente, che i suoi risultati non sono molto diversi da altri tipi di formazione delle politiche pubbliche. Quanto all’assetto delle relazioni industriali, io non sono a priori contro la contrattazione nazionale. Credo anzi che in alcuni casi sia indispensabile. Lo scambio politico in particolare permette ai sindacati di allargare la sfera di influenza dal mercato del lavoro a quello delle politiche pubbliche. Tuttavia, per contrattare occorre essere forti, e avere delle alternative strategiche. Dunque il problema del sindacato e’ quello ritornare a far bene il proprio mestiere di rappresentanza dei lavoratori sui luoghi di lavoro; di tutti i lavoratori e in tutti i luoghi di lavoro. Non sono sicuro che i sindacati ci riusciranno, ma lo spero.
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