[Marchionneide] Lo sciocco guarda le clausole, il saggio guarda al futuro.
giovedì 13 gennaio 2011 | Scritto da Nicolò Cavalli - 1.075 letture |
Più pervicace della Mourinho-mania, più entusiasmante del toto-vallette del festivàl della canzone, tiene banco da mesi la questione Marchionne. Chi ne magnifica le doti di grande innovatore. Chi, al contrario, lo addita come il padrone taylorista e turboliberista, pronto a tirare fuori la frusta non appena le circostanze glielo permettono.
La personale epopea italiota del manager italo-canadese rimane tuttavia difficilmente riconducibile esclusivamente entro gli schemi del conflitto tra capitale e lavoro, né descrivibile con la retorica, logora, dello sfruttamento patronale. Richiamarsi alle categorie del capitalismo buono o cattivo è ingenuo oltreché errato, un esercizio per menti confuse, e decise a vivere in un’epoca già remota.
Tuttavia, la confusione è in qualche modo lecita. L’Amministratore Delegato della Fiat è stato infatti poco chiaro su molte cose (qual è il piano di Fabbrica Italia? Qual è la strategia di lungo periodo della Fiat? Quali sono le prospettive della proprietà?), e sembra anzi navigare a vista sotto vari aspetti, andando a sfruttare le occasioni che gli si offrono, soprattutto in termini di aiuti statali (si veda l’operazione Chrysler e quella serba), per rendere appetibile un’azienda multinazionale esposta in vari settori nei quali non è competitiva.
Marchionne è stato molto più chiaro, paradossalmente e molto italianamente, sul versante ideologico della sua azione: la difficoltà di intrattenere relazioni industriali con i sindacati italiani, a suo parere irresponsabili, scoraggia l’azienda torinese a produrre ed investire in Italia, tanto da ipotizzare di ritirarsi, dopo Termini Imerese, persino dallo storico stabilimento torinese di Mirafiori, se i No prevarranno al referendum sull’accordo, che, è bene ricordarlo, non è un accordo ma una revisione del regolamento aziendale, riscritto dalla dirigenza e sottoposta ai sindacati senza nessuna possibilità di una contrattazione.
Dall’altra parte dell’Adriatico e dell’Atlantico, spiega Marchionne, gli investimenti vengono accolti a braccia aperte, i Governi sono collaborativi e i sindacati ragionevoli: fuori dall’Italia la Fiat trova l’eden di libertà economica tanto agognato in patria, e Marchionne bacia Obama, abbraccia Bobby King – leader del sindacato USA – dicendo di volerlo clonare, intasca sorridente i denari dei contribuenti serbi, e si cruccia e s’intristisce solo quando lo costringono a parlare del Belpaese.
E sembra riguardare proprio più l’ideologia che la produttività, lo scontro che si consuma in questi giorni e che avrà il suo apice nel referendum di Mirafiori. Non è ipotizzabile che il nuovo management creda davvero che pause di 30 minuti, invece che di 40, durante l’arco lavorativo della giornata siano foriere di uno strabiliante aumento di produttività. La logica dello scontro non è da rintracciarsi nelle clausole dell’accordo. La forza idiosincratica dell’azione di Marchionne non risiede nella ventilata lesione dei diritti dei lavoratori, ma nel tentativo, ormai vincente, di normalizzare le relazioni industriali italiane e creare un ambiente business friendly dove sino ad ora il potere sindacale era una realtà con cui era necessario fare i conti.
Si tratta di marginalizzare definitivamente un movimento sindacale ancillare rispetto alle forze politiche ed economiche, che non è stato in grado di opporre, attraverso la contrattazione di diritti duraturi per i lavoratori e opponendosi ad un intervento legislativo a partire dall’articolo 39 della Costituzione, un limite legale allo svolgersi di quelle forze, rimanendo in questo modo ostaggio dei rapporti di potere momentanei, che lo vedono oggi soccombere. E’ un sindacato (ma poi bisogna parlare di “sindacati”, litigiosi, eterogenei, abbagliati dall’ideologia di questo o quel colore) che è stato unito quando i partiti di riferimento erano uniti, che ha contrattato sul serio quando i movimenti spontanei contrattavano sul serio, che si è rimesso all’oggettività dei processi globali quando questi processi sono stati raccontati come oggettivi, senza quasi mai riuscire ad ottenere conquiste che superassero l’esame delle mutate condizioni sociali, economiche, politiche. Un movimento sindacale che ha ballato quando i gatti non c’erano e che oggi torna mestamente a raccogliere le briciole che cadono dal tavolo dei ricchi.
Un movimento sindacale di questo tipo, d’altro canto, non merita sorte diversa da quella che si è, autonomamente, creato. Eppure la ricetta Marchionne non è il positivo superamento, ma la continuazione e sublimazione della logica che ha condotto a questo stato dei fatti.
L’Italia è un paese che ha storicamente basato la propria competitività internazionale sul basso costo della manodopera, spesso fornito, alle grandi aziende del Nord, dalla immigrazione proveniente dal Meridione. La perdita di quote di mercato derivante dall’ingresso sul mercato globale di economie emergenti, in competizione di prezzo con molti prodotti italiani, è stata inizialmente aggredita tramite la svalutazione della lira, quantomeno fino alla perdita di sovranità monetaria sancita dall’ingresso nell’eurozona. A quel punto, il problema di competitività internazionale del Paese non poteva che emergere con forza, come dimostrato da questi ultimi 20 anni di stagnazione.
Da esso, si può uscire attraverso un aumento della produttività del lavoro oppure attraverso una diminuzione degli stipendi ed un abbattimento delle tutele a favore dei lavoratori, nel tentativo di competere sui prezzi del lavoro con messicani, cinesi o serbi, appunto. Scegliere quest’ultima strada significa rinunciare ad una scolarizzazione di massa di alto livello, poiché le generazioni future dovranno svolgere per lo più lavori a bassa qualifica professionale e, per la prima volta dagli anni Cinquanta, i figli non vedranno un miglioramento delle condizioni economiche rispetto ai padri.
Si assisterà piuttosto, e anzi si sta già assistendo, a una sistematica diminuzione dei redditi della classe media ed una polarizzazione della ricchezza nel Paese, con il reddito nazionale che è, già oggi, per il 45%, in mano al 10% della popolazione. Un vero e proprio vicolo cieco.
Se quest’ultima è proprio la strada che si è scelta, le responsabilità sono molte e diffuse, non solo imputabili a sindacati e imprenditori. Governi e maggioranze parlamentari si sono succeduti senza mai concepire un piano di sviluppo industriale che non fosse assistenziale e contemplasse invece le costose e necessarie riforme strutturali volte al lungo periodo, al fine di ottenere quell’aumento di produttività e competitività internazionale, che avrebbe potuto permettere ai prodotti italiani di stare sul mercato globale; non solo senza dover diminuire i costi salariali, ma anzi richiedendo, nel tempo, lavoratori sempre più qualificati e quindi con migliori stipendi.
Ancora nel 1974, Istat andava in Parlamento a indicare Toscana, Emilia-Romagna e Veneto come aree sottosviluppate economicamente, data l’assenza di grande industria sul territorio, e suggeriva di sviluppare politiche sul modello di quelle perseguite per il sostegno della Fiat. Peccato che, come poi scoperto da una schiera di studiosi alla testa dei quali Giacomo Becattini, l’economia italiana sia proprio sostenuta da queste aree “sottosviluppate”, in cui piccole e medie imprese concentrate in distretti costituivano quel marchio del “Made in Italy” che ci contraddistingue nel mondo e che, con le sue quattro A, è stata la vera testa di ponte del successo economico italiano. Altro che l’inefficiente carrozzone Fiat, buono più per prebende di stato che per trainare l’economia. Ed è proprio nell’assenza di una comprensione della specificità italiana, la prima causa dei problemi che oggi affliggono il Paese.
Tant’è che, solo dal 1977 al 1987, Fiat e Alfa Romeo hanno incamerato un ammontare di aiuti statali (6,7 miliardi di Ecu, pari a circa 10mila miliardi delle vecchie lire) largamente superiori a quelli incassati da Renault (4,4 miliardi), Volkswagen (1,5 miliardi), gruppo Psa (1,1 miliardi), General Motors (1,1 miliardi) e Ford (655 milioni). Questa tendenza, foraggiata per decenni con soldi pubblici, si è confermata anche negli ultimi anni, con governi di destra o sinistra, interessati al ritorno elettorale, che hanno preferito socializzare le perdite di fabbriche che avrebbero dovuto chiudere i battenti, in cambio del mantenimento dei posti di lavoro.
Nel Dicembre 2009, Sergio Marchionne spiegava che gli ecoincentivi proposti dal Governo avevano un effetto di 600 milioni sui conti della Fiat per il solo anno in corso, aggiungendo che altri 600 milioni di euro erano entrati nelle casse dell’azienda torinese sotto forma di agevolazioni pubbliche per investimenti e ricerca.
L’assistenzialismo, tuttavia, produce molto spesso degli effetti perversi, poiché disincentiva le imprese a quella innovazione che è la chiave del successo di mercato e senza la quale non riuscirebbero più a vendere i propri prodotti, andando incontro al fallimento. In un mercato distorto dai sussidi, la Fiat è sopravvissuta per decenni senza essere competitiva, salvo poi risvegliarsi bruscamente quando gli aiuti di Stato hanno iniziato a cadere meno copiosi e la situazione era ormai troppo grave per essere ignorata.
Ogni imprenditore ha il diritto di utilizzare i propri soldi come e dove preferisce: questo è un principio dell’economia di mercato, e sull’economia di mercato si basa la stessa democrazia. Tuttavia, è sin troppo facile fare i liberisti a senso unico, intascandosi in silenzio i soldi pubblici, per poi richiedere il rispetto del libero mercato quando fa maggiormente comodo.
Nel momento in cui Renault ha ipotizzato di spostare la produzione della Clio dallo storico stabilimento parigino di Flins alla Turchia, il presidente Sarkozy in persona è intervenuto per imporre ai manager della casa automobilistica di rimanere in Francia, ribadendo che era un dovere della Renault essere leale verso i cittadini, con le cui tasse erano stati pagati larghi incentivi durante gli anni, e minacciandola di perdere qualsiasi sostegno attualmente in vigore da parte dello stato francese.
Berlusconi, invece, spalleggia Marchionne fingendosi il più classico degli uomini della strada e non il presidente del Consiglio, dicendo tranquillamente che, se vince il No, Fiat farebbe bene ad andarsene.
Ennesima didascalia di un Paese dove i banchi dei responsabili restano sempre vuoti, perché tutto è confuso, tutto sfocato, e nella nebbia i soliti quattro furbetti se la svignano, senza che nessuno chieda loro di rendere conto.
Nicolò Cavalli _ 23 anni portati non troppo bene.
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