[Si fa L’Europa] Una risposta lungimirante alla crisi: l’integrazione europea
giovedì 28 luglio 2011 | Scritto da Emanuele Felice - 1.830 letture |
Anche questo pezzo è pubblicato congiuntamente da Labouratorio e da Melograno Rosso. Lo firma l’ottimo Emanuele Felice, che prova a lanciare un segnale di speranza, mostrandoci come la realtà dell’accordo del 22 sia più sfaccettata di quanto dice l’economista greco e molto dipenderà dalle reali intenzioni degli attori in gioco, prima fra tutti la Germania.
L’Unione Europea è una costruzione fragile e squilibrata, questa crisi lo dimostra. Ma nonostante tutto essa rimane, nel campo democratico, la realizzazione istituzionale più ambiziosa e importante forse di tutta la storia umana. Perché possa vivere, è necessario che superi la dimensione rigidamente monetarista su cui si è fondata. L’accordo di Bruxelles istituisce due precedenti – il sostegno ai paesi in difficoltà al di là delle logiche dei mercati, una politica europea a favore della crescita – che potrebbero fare da battistrada all’agognata trasformazione dell’Unione da monetaria a economica e politica. Ma il successo in questo senso è tutt’altro che scontato, dipende molto dalla consapevolezza e dal ruolo della politica e, prima ancora, dei cittadini europei.
Sul versante finanziario, a Bruxelles i capi di stato dell’Euro hanno adottato misure che, per la prima volta, contrastano con l’ortodossia del laissez-faire. L’ampliamento delle funzioni del Fondo europeo di stabilità finanziaria si accompagna all’allungamento dei tempi di riscatto del debito e all’abbassamento del tasso di interesse di lungo periodo, ad un più sostenibile 3,5%; spicca inoltre un finanziamento extra alla Grecia, basato sui fondi strutturali, per favorire la crescita e la competitività. Sono misure in linea con le idee che circolano da tempo negli ambienti degli economisti liberal americani (si guardino gli editoriali del New York Times e dell’Herald Tribune) ed anche fra i circoli della sinistra riformista europea (il Pse si era espresso in tal senso sin dal marzo del 2010): è evidente che il debito greco non poteva essere sostenibile ad un tasso (superiore al 5%) che era più alto di quanto potesse ragionevolmente crescere quell’economia nel lungo periodo (e qualunque economia europea), tanto più se allo stesso tempo si chiedevano alla Grecia misure draconiane che inevitabilmente frenano la crescita. Si tratta di elementare buon senso, che si ritrova anche nei manuali di macroeconomia. È altrettanto evidente che, se solo queste voci di buon senso fossero state ascoltate per tempo, i paesi deboli dell’Euro e in particolare l’Italia avrebbero risparmiato miliardi di euro, sottoforma di minori interessi da pagare (la responsabilità del tempo e delle risorse perse è innanzitutto politica, della leadership conservatrice dell’Europa e in particolare del governo di Angela Merkel). La resistenza ad applicare misure tanto ovvie può dare l’idea di quanto l’ideologia del laissez-faire fosse radicata, specie fra i governi conservatori. Per questo, non bisogna sottovalutare il passo avanti compiuto. Come nota Varoufakis su MelogranoRosso&Labouratorio, difficile pensare che un tasso del 3,5% si applichi solo alla Grecia: probabilmente si è aperta una breccia destinata a beneficiare anche altri paesi.
E qui veniamo alle questioni politiche. Le misure proposte, per avere senso, dovranno comportare una maggiore integrazione europea, dando un’importante spinta ad un processo che negli ultimi anni era rimasto al palo. Davvero in questo caso da un’occasione di crisi potrebbe nascere un’opportunità. E tuttavia non bisogna farsi illusioni, la strada da percorrere è ancora molto lunga. Tanto per cominciare, alcune delle misure in campo, in primis l’ampliamento delle funzioni del Fondo europeo di stabilità finanziaria, dovranno essere approvate da ognuno dei singoli parlamenti nazionali che partecipano al Fondo. E già questo la dice lunga su come siamo messi in Europa. Ma soprattutto, non si capisce come quanto proposto possa essere davvero sostenibile senza l’introduzione di almeno tre riforme fondamentali, che qui di seguito enumero in ordine crescente di importanza, e che non sono affatto scontate.
Primo, la creazione di un agenzia di rating europea: non è necessario che sia pubblica la proprietà, ma devono essere pubbliche (anche nel senso di “trasparenti”) le regole su cui si basa la sua attività. Secondo, la riforma dello statuto della Banca centrale europea, su cui giustamente insiste Cesaratto su MelogranoRosso, affinché la Bce non si occupi solo di controllare l’inflazione, mantenendo alti i tassi (il che ha aggravato il costo degli interessi per i paesi debitori), ma nel caso anche di favorire la crescita, abbassando i tassi (va bene che in alcuni periodi la preoccupazione per l’inflazione possa essere prioritaria, ma il fatto che tutto ciò sia imposto per legge è una rigidità senza senso… specialmente in periodi di crisi economica e debitoria!); e naturalmente, dovrà essere consentito alla Bce il ruolo proprio di ogni banca centrale, quello di prestatore di ultima istanza. Terzo, forse davvero il punto centrale, l’avvio di una fiscalità europea, ovviamente sostitutiva di quelle nazionali, con cui finanziare ad esempio le politiche per la crescita; oltretutto la fiscalità europea darebbe senso e applicabilità alla proposta degli eurobond sostenuta da Varoufakis.
Se della prima riforma si parla ormai diffusamente, ma senza concludere, della seconda si discute ancora poco, mentre la terza rimane sullo sfondo come un obiettivo tanto desiderabile quanto remoto. Già. Nel frattempo gli Stati Uniti, con un debito a rischio default, pagano interessi inferiori a quelli di quasi tutti i paesi europei, e praticamente alla pari con la virtuosa Germania. Cioè pagano meno, a parità di condizioni, semplicemente in virtù delle dimensioni della loro economia, che quel debito pure enorme garantisce – e forse con la complicità delle loro agenzie di rating. Questo significa che gli USA possono indebitarsi molto più di quanto non possa fare, poniamo, l’Italia, eventualmente utilizzando quei soldi per politiche favorevoli alla crescita (ad esempio per le infrastrutture e per la ricerca scientifica, che farebbero tanto bene all’Italia). Se è vero che il traguardo di una fiscalità europea appare ad oggi davvero lontano, va anche detto che dall’introduzione dell’euro ad oggi non si è fatto praticamente nulla in questa direzione. Si è trattato di un decennio perduto, con responsabilità che in questo caso appartengono anche al campo della sinistra riformista. La politica è tutta responsabile. Significativo è il fatto che, dal 2001 ad oggi, nulla è cambiato nella logica e nella pratica dei partiti, che sono rimasti eminentemente nazionali. La stessa pur lodevole presa di posizione del Pse per far fronte alla crisi, cui all’inizio dell’articolo si faceva riferimento, è rimasta largamente inascoltata dai rispettivi partiti nazionali: qualcuno ha mai sentito il PD, o Sel, farvi riferimento?
Gli articoli di Varoufakis e di Cesaratto su MelogranoRosso sono entrambi critici sul recente accordo europeo di Bruxelles, anche se per ragioni diverse: Varoufakis considera l’accordo tardivo e insufficiente senza l’introduzione degli eurobond, Cesaratto ritiene che si sia andati nella direzione sbagliata rafforzando le prerogative non-interventiste della Bce. Entrambi hanno delle ragioni, io però tendo a vedere il bicchiere mezzo pieno: penso che l’accordo possa rappresentare un primo passo avanti nella capacità di risposta dell’Europa, a condizione naturalmente che non sia l’ultimo. In verità è l’accordo stesso, per come è strutturato, che pone inevitabilmente il problema di ulteriori interventi nella direzione di una maggiore integrazione europea, per superare lo squilibrio tra l’unificazione monetaria e le prerogative nazionali soprattutto in materia di politica fiscale. Purtroppo manca, a tutt’oggi, un’opinione pubblica europea che sostenga queste riforme, mentre le classi dirigenti nazionali appaiono restie a cedere ulteriori quote di sovranità e di potere. Se le tormentate vicende di questi mesi aiuteranno a creare una maggiore consapevolezza fra i cittadini europei, forse davvero questa crisi sarà servita a qualcosa.
Emanuele Felice è professore di Introduzione all’economia e di Storia economica contemporanea presso l’Università Autonoma di Barcellona. Ha pubblicato diversi saggi sulle principali riviste italiane e internazionali e alcune monografie, fra cui Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia (il Mulino, 2007).
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