[Antimafie] Sciascia e Falcone, due modi diversi di fare antimafia?
mercoledì 18 gennaio 2012 | Scritto da Dino Tine - 4.212 letture |
Dino Tinè, che cura su facebook la bella pagina La Sicilia come metafora – spazio di cultura antimafia dove il focus principale è l’antimafia di Leonardo Sciascia, ci introduce nel dibattito attorno al maxi processo, istituito da Falcone e Borsellino alla fine degli anni ’80 che sarà il primo duro colpo inflitto a Cosa Nostra dallo Stato democratico.
“Buscetta, la piuma e il piombo”, articolo che Leonardo Sciascia scrisse in pieno maxi processo a commento delle dichiarazioni che il pentito stava rilasciando durante il dibattimento.
http://www.radioradicale.it/exagora/buscetta-la-piuma-e-il-piombo
A Sciascia, inizialmente critico nei confronti del maxiprocesso, non convinceva l’argomentazione secondo cui dall’ipotetica super direzione mafiosa era possibile dedurre le responsabilità dei singoli. In questo modo, secondo lui, andava perdendosi il carattere individuale della responsabilità penale e non sarebbe stato possibile garantire un giudizio equo soprattutto di fronte ad un numero cosi grande di imputati. Ma Sciascia paradossalmente riteneva credibile Buscetta proprio nella misura in cui questo continuava a parlare il linguaggio mafioso, a non dirsi pentito e a considerarsi interprete dei cosiddetti valori della “vecchia mafia”.
Valori che secondo Buscetta, sarebbero stati sostituiti dalla violenza incontrollata e dalla malvagità della nuova leadership corleonese, unica responsabile del degrado morale dell’organizzazione. Ovviamente quelle di Buscetta erano interpretazioni fuorvianti e irrealistiche, strumentalismi che in alcuni casi diventarono reticenze e in altri chiare bugie. Buscetta infatti non volle parlare del rapporto tra mafia e politica perché riteneva che i tempi non fossero ancora sufficientemente maturi e si rifiutò di rispondere a qualsiasi tipo di domanda su tale argomento. Ma fu lo stesso Falcone a non insistere eccessivamente su quest’aspetto perché attento a non inquinare il processo con forzature che potessero riguardare tali rapporti visto che per quest’ultimi non si erano ancora raggiunte situazioni di particolare consistenza della prova. Comunque fin dall’inizio Falcone aveva inteso più volte ribadire la priorità cronologica e logica “di una puntigliosa e faticosa ricostruzione degli aspetti più propriamente criminali delle organizzazioni mafiose” su quella della “rete di complicità e connivenze”, e dunque degli aspetti politici. Insomma per Falcone la priorità era portare a compimento il processo impedendo che l’ inchiesta si annacquasse nel ricercare legami con la politica ancora difficili da provare e che diversamente si concentrasse su responsabilità penali ben individuabili e definibili. Tra l’altro la linea rigorista di Falcone avrebbe potuto essere apprezzata da Sciascia, ma per quanto se ne sappia non lo fu. Le bugie di Buscetta riguardarono invece principalmente il narcotraffico, che secondo il pentito era una sorta di “peccato originale” completamente attribuita ai suoi nemici corleonesi e del tutto estranea a lui e ai suoi amici palermitani. L’unica critica che forse può essere fatta a Falcone e al pool di inquirenti, che insieme a lui raccolsero le dichiarazioni di Buscetta, è proprio quella di non aver saputo, o voluto in alcuni casi, prendere le dovute distanze dalla sua ideologia cosi mistificante, di aver accettato le sue “verità” senza quasi interferire. Forse perché per i magistrati la priorità era difendere il contributo cosi rilevante delle sue dichiarazioni da calunnie e insinuazioni. Oppure perché, come disse Falcone, Buscetta fornisce l’alfabeto, la grammatica e la sintassi della mafia, apre le porte dell’enorme edificio sotterraneo, pur occultando alcune sue stante. Per il resto la condotta di Falcone nella gestione del pentito in genere e in particolare nel raccogliere, vagliare e ricercare riscontri oggettivi alle sue dichiarazioni, fu estremamente corretta e contribuì ad accrescerne l’attendibilità.
Niente di tutto questo infatti compromise o indebolì l’attendibilità delle sue dichiarazione e la portata rivoluzionaria che ebbero nella conoscenza del fenomeno mafioso.
Infine Sciascia, prendendo atto dell’andamento del dibattimento, che di fatto non aveva in alcun modo incrinato i diritti individuali degli imputati, avrebbe riconosciuto la validità e l’equità delle condanne e come queste erano basate su fatti e non su teoremi. E infatti in un altro suo articolo a conclusione del processo dichiarò: “La sentenza non mi pare frutto della confusione; vi si intravede anzi quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine. E basti considerare l’assoluzione di Liggio, che a me pare fatto anche più importante della condanna di altri”. Tuttavia aggiunse: “Che l’impalcatura istruttoria abbia sostanzialmente resistito al processo dibattimentale si può senz’altro dire, ma mi pare non abbia invece retto né poteva la teoria della “cupola”, altrimenti detta “teorema Buscetta”. Non ho mai creduto che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale; e ritengo che il crederlo produca fuorviazioni, rischi, cedimenti a facili e momentanee soddisfazioni (come quelle che nei media si notano di fronte all’esito di questo processo)”. E’ questo un punto fondamentale, molto spesso taciuto, che con estrema lucidità Sciascia seppe cogliere. Infatti anche lo storico Salvatore Lupo sembra pensarla come lui quando afferma che l’immagine piramidale di Cosa Nostra, raccontata con un formalismo quasi giuridico da Buscetta, è continuamente contraddetta dal racconto delle singole transazioni, dei rapporti tra persone, degli affari e degli interessi degli uomini d’onore. Un esempio fra tutti: quando Buscetta spiega il funzionamento del narcotraffico o del contrabbando, dice comunque esplicitamente che ad agire sul mercato sono i singoli mafiosi, non le famiglie né tanto meno la Cupola. I mafiosi hanno un sorta di diritto di prelazione, come afferma Lupo: possono se vogliono partecipare al traffico con una propria quota, con propri soldi e a proprio rischio. Sembrerebbe quindi non esistere la cassaforte della mafia, ma solo il denaro di ciascun mafioso. Non esiste pertanto neppure il cassiere della mafia, com’era stato ribattezzato Pippo Calò. E in effetti di Calò Buscetta disse: “Se era cassiere lo era della sua cassa.” Forse quindi l’immagine della piovra con una testa e cento tentacoli, della cattedrale sormontata da un’unica cupola – dell’unica struttura di tipo piramidale insomma – non solo non è applicabile a tutte le manifestazioni o fasi storiche della mafia ma forse non si adatta a nessuna di esse. Anche se per l’era corleonese è innegabile la presenza di un unico centro direzionale.
E Sciascia già allora sembrava esserne consapevole: “La mia opinione è stata sempre che la mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per farne uno stato unitario e assolutistico (usiamo, si capisce, termini approssimativi).”
Sempre secondo Lupo, i gruppi che compongono la mafia non sempre hanno bisogno di una forte direzione per controllare il loro territorio e gestire affari anche di vasta scala. Sembra piuttosto che i gruppi mafiosi “si siano coordinati grazie ad un sistema di interrelazioni piuttosto fitte, garantite da comuni codici e da un sistema di regole – chiamiamolo cosi – di tipo paramassonico”.
Di sicuro si può concludere che, nonostante di organismi di coordinamento tra le famiglie si abbia già notizia nelle informazioni di polizia dell’Ottocento, la Cupola ha sempre avuto vita difficile e raramente ha garantito la convivenza pacifica tra di esse. Si può pensare che nella lunga storia della mafia centralizzazione e decentralizzazione si siano ciclicamente alternate in base a esigenze particolari e a situazioni eccezionali.
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