[Mondoperaio in Labouratorio] Il dibattito sui giovani. Precauzioni per l’uso.
domenica 13 marzo 2011 | Scritto da Plex - 715 letture |
Uno spettro si aggira nel dibattito pubblico, lo spettro del dibattito sui giovani. Talk show, approfondimenti, inchieste giornalistiche, lettere dimadri che hanno perso la speranza per i loro figli. Discorsi di fine anno di Presidenti della Repubblica. È il tormentone nazionale, l’unico tema che riesca a scalzare per qualche giorno gli harem di Berlusconi dalle prime pagine. Ce la potremmo cavare con un po’ di retorica a buon mercato sul tema “la prima generazione che vivrà peggio dei propri genitori”; ma convinti come siamo di non essere né i primi né gli ultimi nemmeno in questa presunta cesura della storia, preferiamo cercare di allargare la prospettiva e leggere il dibattito da un altro punto di vista. A chi serve dunque un dibattito sui giovani?
Permetteteci di dubitare che abbia qualche effetto positivo sui giovani stessi. Come tutti i dibattiti che si protraggono troppo a lungo, anche questo è la spia dell’incapacità di affrontare un problema piuttosto che della via per risolverlo. Un decennio di retorica sulla dicotomia “giovani precari esclusi/vecchi lavoratori a tempo indeterminato garantiti” non ha prodotto nessun allargamento delle tutele, e non è pensabile credere che ciò possa avvenire, dopo 20 anni di inerzia, proprio in un momento di crisi economica, stante la perdurante assenza di potere contrattuale (leggi sindacale) dei lavoratori precari.
Né è credibile possa sparire come per magia il disfacimento del sistema dell’istruzione, piegato dalle sue croniche incapacità di promuovere merito e qualità unite alla mancanza di volontà politica di investire con intelligenza nel sistema; o che si dissolva lo spettro del fallimento a lungo termine del sistema pensionistico sotto il peso dell’avanzamento inesorabile dell’età media. Un dibattito sui giovani che non intacchi i nodi del trinomio istruzione-precarietà-pensioni, l’asse portante di quella che è stata definita la “questione generazionale” che affligge il nostro paese, è un dibattito che serve solo a far vendere più copie ai giornali e a lavare la falsa coscienza della peggiore classe dirigente della storia patria.
Sarebbero tante le considerazioni da fare sul come e sul perché sia difficile se non impossibile intaccare ciascuno di questi nodi con gli strumenti culturali e legislativi di cui dispone attualmente la politica. Il mio modesto avviso è però che la questione, nei termini in cui è stata posta nel dibattito pubblico nazionale, sia solo la punta dell’iceberg di un dibattito che deve necessariamente investire tutte le società occidentali riguardo a un nuovo bilanciamento delle risorse e delle opportunità al proprio interno, iceberg che emerge con maggiore evidenza in Italia a causa della sua accentuata tendenza ad organizzarsi in caste e corporazioni di varia natura.
Perché dunque, e in che termini, parlare di giovani? Io credo che il valore di un dibattito sui giovani si possa dare nel momento in cui contribuisce all’esplicitazione del loro potenziale politico. Con questo intendo quella capacità assolutamente peculiare che i giovani si trovano ad avere all’interno di una società, di mettere in moto cambiamenti sostanziali della struttura politico-sociale. E’ un potenziale che si manifesta in modo quasi automatico anche semplicemente in virtù della percentuale di giovani all’interno di una società. Ad ogni boom demografico corrisponde quasi sempre una ventina di anni dopo un momento “rivoluzionario”, nel senso più ampio del termine. È stato cosi per il boom demografico del dopoguerra che ha dato origine al ’68, e lo osserviamo tutt’ora nell’esplodere dei movimenti di protesta del mondo arabo, figli di un analogo boom demografico nella fine del secolo scorso.
Si manifesta più in piccolo ogni qual volta una generazione politicizzatasi accede all’esercizio del voto sovvertendo gli equilibri raggiunti fino ad allora dal sistema dei partiti. Chi sono i giovani cui è opportuno rivolgersi allora? Il presidente Napolitano ci viene in aiuto dedicando il suo discorso di fine anno “ai più giovani tra noi, che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cercano un’occupazione, cercano una strada”. Non è dunque tanto una questione prettamente anagrafica, quanto piuttosto la “fame” di futuro di chi volendo imporre se stesso impone un cambiamento a un equilibrio cristallizzato. E’ quella stessa fame che da sempre costituisce il motore politico del mondo. L’Italia in particolare e l’Europa più in generale si trovano in una condizione di perdurante declino nella misura in cui non riescono ad accendere quel potenziale inespresso. Non ci riescono per una molteplicità di motivi, primo dei quali certamente il dato demografico che assegna non a caso all’Italia e al Giappone i più bassi tassi di crescita demografica ed economica degli ultimi 15 anni. Ma la storia della formazione dell’Unita’ nazionale ci insegna che in particolari momenti storici anche la lucida follia di minoranze organizzate può cambiare i destini di una nazione.
A una congenita esiguità numerica si può e si deve allora contrapporre la spinta e la capacità di mobilitazione di avanguardie creative che alimentino e indirizzino le fiammelle sterili dello spontaneismo movimentista. Solo chi avrà la capacità di scommettere sulla mobilitazione del “potenziale generazionale” potrà arrogarsi il diritto di una riforma radicale del sistema paese.
Andrea Pisauro_26 anni passati in attesa di scrivere su Mondoperaio. Il suo prossimo obiettivo è diventato la conquista di 18 territori qualunque, da occupare con almeno due armate. Per il mezzo secolo ce la dovrebbe fare.
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