Ok, non c’è molto da scherzare. E però è vero che certe suggestioni di una certa “sinistra”, riviste a distanza di anni, fanno riflettere. Eterogenesi dei fini, o più semplicemente totale assenza di visione strategica, fattostà che dell’esercito dei Marchionnisti fanno parte anche consistenti spezzoni del PD. Per fortuna, Manfr vigila…

Questo articolo, lo dichiaramo fin dalla prima riga, non piacerà a chi è estimatore di Sergio Marchionne. Ma neanche a chi ripone le proprie salvifiche speranze di riforma nel Terzo Polo. O, se per questo, nemmeno a chi si lamenta del manager italo-svizzero-canadese perchè sarebbe un manager preistorico, un cattivo padrone del vapore, e attende l’arrivo messianico di un “imprenditore buono”. Magari “socialdemocratico”, come lo definiva Fausto Bertinotti.
Infatti, non considero affatto Marchionne un antiquato ignorante che non sa cosa voglia dire produttività e tutto il resto. Non si arriva dove è lui ora se si viene sfornati da certi consessi universitari, imprenditoriali o misto dei due all’italiana. Marchionne sa benissimo che la produttività dipende solo in minima parte dall’intensità del lavoro, e infatti le fabbriche polacche e brasiliane sono all’avanguardia in termini di dotazioni tecnologiche. Marchionne sa che gli stipendi degli operai rappresentano solo il 7% del costo di una automobile e infatti non ha chiesto agli operai di ridursi lo stipendio a parità di ore, come fatto dalla Volkswagen, ma nelle tasche dei dipendenti entreranno gli stessi soldi di prima, più una maggiorazione per lo straordinario. Marchionne sa benissimo che la FIAT non riesce a vendere le sue macchine, e che quindi saturare gli stabilimenti serve fino a un certo punto: non è un caso nemmeno che porti il modello FIAT più popolare nello stabilimento Chrysler, o nei mercati dell’Est Europa e dell’America Latina dove le FIAT sono ancora competitive, mentre in Italia infuria la cassa integrazione e saranno prodotti SUV. Il nostro mercato è saturo, e Marchionne non ritiene che lo si possa conquistare: quindi punta sulle nicchie, con macchine “Chic”, come i restyling di Panda e 500, o i ricchi che amano la macchinona.
Alla luce di questo, per capire cosa sia Marchionne, dobbiamo ricordare il tarlo fisso della sinistra della Seconda Repubblica, in campo di politica industriale: ci mancano dei campioni industriali, delle grandi multinazionali che possano competere in innovazione tecnologica e nella conquista dei nuovi mercati, in cui la forza lavoro sia sufficientemente ampia da poter essere stabile e e sindacalizzabile. Riflesso di questa idea, la “merchant bank” di Palazzo Chigi ai tempi di D’Alema, con le privatizzazioni sfruttate per creare (perlopiù sfortunati) colossi privati, unendo omaggio alla cultura neoliberale della ritirata statale dal mercato senza per questo rinunciare all’idea di costruire “egemonia” sulla nuova Italia tramite l’occupazione delle “casematte del potere”.
Marchionne è figlio anche di questa infatuazione: il suo scopo è fare di FIAT una grande multinazionale, per cui contano i profitti e non le tradizioni locali, e lo sta facendo egregiamente. Ecco il perchè di uno scontro così duro: di fronte alla perdita di competitività di stabilimenti che comunque non converrebbe chiudere, è necessario ristrutturare le relazioni industriali in modo da poter superare, con uno “schock”, le inefficienze del sistema. L’idea sacrosanta di un contratto dell’automobile era stata avanzata dalla Confapi, la confederazione delle piccole imprese, come alternativa a una contrattazione aziendale che le avrebbe esposte allo scontro sociale (vedasi proprio l’indotto FIAT, piccole fabbriche in cui la FIOM è egemone). Marchionne l’ha invece ripresa per imporre lui le regole di rappresentanza, uscendo da Confindustria e dribblando così le regole formali dell’organizzazione; mettere in questo modo all’angolo i sindacati, costringendoli a trasformarsi in organizzatori di manodopera; bloccare l’eventuale insubordinazione degli indottisti, rassicurandoli sull’infattibilità di una ritorsione sindacale e riportandoli sotto la gerarchia del LIngotto. Marchionne, quindi, non è affatto antimoderno, anzi, è modernissimo: dovremmo abituarci a pensare però che forse Calearo e Nerozzi, il primo oggi con Berlusconi e il secondo con la FIOM, non avessero proprio tutte le ragioni del mondo, quando si stringevano la mano, benedicente Veltroni, sostenendo la fine del conflitto sociale.
Gli interessi di imprenditori e dipendenti sono convergenti se si tratta di salvare l’azienda e farla funzionare, ma è inutile far finta di non vedere che sono del tutto stridenti quando si parla di “dividersi la torta”: paradossalmente, la Crisi ci ha mostrato come le piccole aziende, dipinte a lungo come luoghi di barbaro sfruttamento desindacalizzato e paternalista, siano molto meno propense a rinunciare ai propri dipendenti, vuoi per la dimensione più umana dei rapporti, vuoi per i problemi a trovare quella manodopera qualificata che sola oggi garantisce alle nostre PMI di poter competere sull’alto valore aggiunto, e non su piastrelle e canottiere.
Non stupiamoci di Marchionne: lui fa solo il suo mestiere. Sta al sindacato e alla sinistra, o alla politica in senso lato, fare il proprio e rispondere alla sua sfida, risolvendo un vulnus rispetto al nostro modello sociale come le clausole di responsabilità di Pomigliano e quelle di rappresentanza di Mirafiori. Del resto, gli appelli della CISL a Marchionne perchè coinvolga i lavoratori “Informandoli” lasciano il tempo che trovano quando il manager si avvia a escludere i lavoratori Chrysler dal controllo dell’azienda datogli da Obama rastrellando azioni.
In tutto questo, Marchionne non si muove da solo: è l’attore protagonista di questo scontro, ma a suo supporto c’è uno schieramento che include PDL, UDC, Confindustria, parte del PD. I sostenitori politici di Marchionne rappresentano interessi diversi: il PDL populista e corporativo vede l’occasione di costruirsi una cinghia di trasmissione sindacale e di distruggere uno degli ultimi luoghi di insediamento sociale della sinistra, l’UDC e la Confindustria fanno coerentemente ma “con juicio” gli interessi di quel capitalismo italiano che pur temendo uno scontro aperto punta a dare la spallata al sindacato. E poi c’è una parte del PD, che è passata direttamente dalla “impossibilità della rivoluzione senza capitalismo” alla subalternità al “trickle down”, all’idea che i profitti si redistribuiscano da soli se l’impresa cresce: cosa vera ma solo fino a un certo punto, se non esistono soggetti in grado di sfidare quel controllo dell’offerta di lavoro che le grandi imprese possono sfruttare nelle zone in cui tutto il tessuto economico è cresciuto attorno a loro.
Il risultato è uno schizofrenico Chiamparino che, abbandonato il giovanilismo meritocratico del PD, scende in campo per i lavoratori di Mirafiori, mediamente 48enni con qualifiche mediobasse, contro quelli di Pomigliano, in larga parte giovani ben qualificati, nel nome del localismo, salvo poi schierarsi anche a Torino con l’azienda, e negando il confronto tra politica e operai a cui invece non si sottrae una Lega Nord che in Piemonte ha fatto sua una proposta anti-delocalizzazioni del PRC e che, in un recente sondaggio è il secondo partito nel voto operaio, col 20%, dopo il PDL al 26,5, con un PD relegato al 19%. Del resto, l’interlocutore privilegiato di quella parte del PD è Montezemolo, che sta creando un partito con i soci in affari e ha come stella polare combattere “neostatalismo municipale” e la tendenza a “usare l’industria di Stato per controllare l’economia del Paese”.
A questo punto, non ci stupiremo più di nulla se tra 10 anni, la “sinistra” in questa Italia sarà rappresentata da Tremonti e da Maroni col loro localismo protezionista: dopo aver identificato la parola “sinistra” col No a tutti i costi e aver rinunciato a proporre una loro via d’uscita da questo scontro, di fronte agli “imperativi” della globalizzazione, i nostri leader progressisti probabilmente saranno troppo impegnati a finanziare scuole private per accorgersi che la risposta alla globalizzazione che stanno costruendo è quella di un rifiuto xenofobo del nuovo mondo che verrà.
Manfredi Mangano _ 23 anni, studente in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Tra i suoi 6 “interessi e attività” su Facebook, uno è Fernand Braudel. Nel resto del tempo, fa talmente tante cose che Labouratorio ha perso il conto.
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