[Marchionneide] La FIOM, il sindacato e la “genialità” di Mister Panda
giovedì 13 gennaio 2011 | Scritto da Guido Nicolosi - 1.462 letture |
Non è un mistero che l’amministratore delegato della FIAT Marchionne sia convinto che la FIOM rappresenti un grosso ostacolo allo sviluppo del Paese. Non è mia intenzione negare una certa arretratezza culturale della FIOM. Anzi, dirò di più, da molti anni ormai il sindacato italiano tutto, a mio avviso, ha mostrato i limiti e le incongruenze di una oligarchia (nel senso che dava a questo termine Roberto Michels) che come tutte le oligarchie rischia di trasformarsi in casta autoreferenziale. Sono nipote di uno storico socialista e sindacalista siciliano. Cresciuto nel mito del sindacato, ho dovuto col tempo dolorosamente ricredermi. Infatti, da giovane meridionale iscritto alla CGIL, per circa 10 anni “lavoratore della conoscenza” precario, ho avuto modo di verificare sulla mia pelle gli effetti perversi delle scelte scellerate di un sindacato di vecchi, orientato prevalentemente al mantenimento delle garanzie e in alcuni casi dei privilegi di chi è già garantito a scapito di chi invece annaspava nel mare magnum della “flessibilità radicale”. Bisogna avere il coraggio di dirsele queste cose. Ha un valore catartico. So che per un socialista rappresenta un tabù da sfatare e una crisi da superare. Eppure bisogna avere il coraggio di raccogliere la sfida e saper raccontare a se stessi e agli altri il sindacato senza pudori ma, ed è questo il difficile, riuscendo a non cadere nella trappola delle ambiguità antisindacaliste (tipico vizio degli ex-socialisti approdati sulle rive della destra berlusconiana). E’ come criticare il proprio padre, per un figlio maschio o la propria madre, per una figlia femmina. C’è un conflitto edipico che va affrontato e risolto. Uccidere simbolicamente il padre, per il figlio, è doloroso, ma necessario per raggiungere autonomia e indipendenza. Il trucco sta nel farlo con maturità e senza rancori. Solo così si può ricostruire un rapporto paritario e fecondo.
Fatte queste doverose premesse “psicanalitiche”, da diversi giorni mi chiedo se non sia giusto e naturale concordare con le accattivanti provocazioni di Marchionne. Ma la risposta che mi sono dato è decisamente negativa. Diverse sono le ragioni che spiegano questa mia convinzione. Alcune sono di metodo, altre di merito. Sul metodo, irrita profondamente il fatto di aver assecondato, o addirittura trasformato in piano programmatico, la strategia governativa del divide et impera. Questa scelta di metodo rivela intenzioni egemoniche di medio-lungo periodo orientate all’annullamento del sindacalismo più critico. Fra l’altro, i sindacati “prescelti” (CISL e UIL) non hanno brillato in questi anni per innovatività e progressismo. Inoltre, trovo moralmente inaccettabile e politicamente inquietante che Marchionne abbia impostato una presunta strategia modernizzatrice facendo leva su un comportamento (e un linguaggio) feudale e ricattatorio: “se fate come dico io, bene. In caso contrario andate a casa”. Marchionne non è “el paròn” di una piccola ditta irrilevante di periferia, ma l’amministratore delegato della più importante azienda italiana e una delle più grandi del mondo. Si tratta, inoltre, di una realtà che l’Italia tutta (operai e contribuenti) ha contribuito a sviluppare e a mantenere in vita. E al Paese Marchionne deve, in qualche modo, rendere conto.
Sul merito, invece, non c’è dubbio che il sindacato (la FIOM in particolare) dia spesso l’impressione di non voler prendere atto della dura realtà imposta dalla divisione internazionale del lavoro che colpisce l’industria automobilistica e delle conseguenti difficoltà sul piano della competitività che si sono affermate nel settore. Ma è anche vero che proprio questa stessa questione (reale) mette in luce i limiti del ragionamento e dell’azione della FIAT di Marchionne. La competitività di un prodotto non è una dimensione correlata esclusivamente ad un fattore. Sono molti gli aspetti che contribuiscono e il costo del lavoro non è, tra questi, il più rilevante, specie nel caso dell’industria dell’auto. Secondo quanto affermato dallo stesso Marchionne, nel caso dell’industria automobilistica, il costo del lavoro incide per non più dell’8 %. Ci sono altri fattori che contano: caratteristiche tecniche del prodotto, appetibilità dei modelli, capacità commerciale di intercettare i mutamenti della domanda, quantità e qualità di investimenti per anticipare i concorrenti nelle innovazioni tecnologiche, ecc. Ora, trovo quantomeno singolare che un’azienda come la FIAT che intende, giustamente, attuare una strategia di rilancio internazionale non sappia presentare al Paese un quadro organico e moderno di trasformazione. E’ comprensibile che la FIAT chieda sacrifici agli operai, ma deve contemporaneamente convincere il sindacato (tutto) e il Paese che si ha la competenza e la volontà di attuare un piano omogeneo di gestione del complesso dei fattori che incidono sulla competitività. L’esempio tedesco della Volkswagen è lì davanti a noi, sotto gli occhi di tutti. L’azienda tedesca è riuscita a trovare un accordo con i sindacati finalizzato a calmierare i salari e a rendere flessibile l’organizzazione del lavoro, ma offrendo in cambio un rilancio della produzione fondato sulla ricerca applicata all’innovazione dei modelli e sul tentativo di aumentare la presenza tra i prodotti di gamma alta dove i margini di profitto sono alti. Oltre che su un corrispondente piano per calmierare gli stipendi degli stessi manager (che rispetto all’Italia sono già comunque molto più bassi mediamente in relazione agli stipendi degli operai).
In Italia, quello che Marchionne ha dato per certo (altro aspetto critico quello della trasparenza del suo progetto) è che in caso di vittoria dei sì dovrebbe essere lanciata la produzione di una nuova Panda a Pomigliano: la montagna partorisce il topolino. Tutto qua? È questo il punto più rilevante di un progetto industriale di portata storica? Il prodotto più povero della gamma FIAT, per quanto di successo, dovrebbe rappresentare il punto più alto della genialità manageriale del nostro “amico americano”? Allora la domanda è: ma siamo sicuri che sia solo la FIOM a bloccare lo sviluppo del paese? Cosa dire di un management poco innovativo, attento solo agli interessi azionari (cioè spesso dei propri) e in molti casi parassitario? L’impressione è che in Italia la casta degli amministratori delegati delle grandi aziende pubbliche e private italiane sia stata di gran lunga molto più nociva della casta sindacale. E questo Marchionne sembra averlo capito bene.
Così come sogniamo di avere un sindacato innovativo, moderno e attento alle esigenze di coloro che sono realmente i meno garantiti, non è legittimo sognare di avere anche una classe dirigente e imprenditoriale in grado di dimostrare di avere un vero, chiaro e condiviso progetto per il Paese? Allora, l’impressione è che nella comunicazione politica il metodo Marchionne sia in realtà soltanto una chiara imitazione del metodo Brunetta: dare con grande enfasi del fannullone ai più deboli per nascondere il fatto che dovrebbero essere i più forti i primi a dare l’esempio e lavorare di più e soprattutto meglio.
Guido Nicolosi_ radicale di orientamento liberalsocialista, è un sociologo. Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Sociali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, insegna Sociologia della comunicazione, dei media e delle nuove tecnologie.
Commenti recenti