[E poi ce so’ i cattivi] Sulle orme dei nuovi conservatori d’Europa
venerdì 31 dicembre 2010 | Scritto da Demi Romeo - 864 letture |
– PREMESSA. VERSO L’EUROPA DEI NAZIONALISMI?
Si stanno accendendo pericolosi animi contro la tolleranza religiosa e la pacifica convivenza etnica in regioni molto calde d’Europa, in cui ancora si manifestano sentimenti non sopiti dagli anni Novanta, oppure in circostanze dove la spinta dell’integrazione europea nell’ultimo ventennio ha favorito l’incremento massiccio della migrazione umana – specie tra i lavoratori, i ricercatori e i disagiati economici – come conseguenza dell’abbattimento concordato delle frontiere commerciali tra gli Stati.
Il Nazionalismo, le pulsioni xenofobe e il rigetto delle società multietniche e del multiculturalismo rappresentano un trend tipico di tutti i Paesi europei – Est e Ovest -, anche fra quelli ormai da tempo pacificati sotto l’aspetto della convivenza civile e del conflitto sociale.
Certamente in Serbia – e in genere nei Balcani – la conflittualità fra le culture ha rappresentato e continua a rappresentare un caso estremo, comunque tutto interno alle questioni principali e all’attualità politica che riguarda l’Unione Europea.
Tuttavia, non è da meno quanto sta accadendo in Francia in merito alle espulsioni delle comunità Rom e persino l’avanzata elettorale dei diversi movimenti islamofobici nel Centro-Europa e in Scandinavia, oltre che nell’ex blocco sovietico.
– INTEGRAZIONE E INTEGRALISMO.
Si individua attualmente una possibile molla di tensioni sociali di diversa natura nella trasformazione dell’economia europea e del suo modello produttivo. Questo è infatti un processo che sta coinvolgendo tutto il continente, non solo aree geografiche in cui i disordini sono scaturiti dalle fratture lasciate dai conflitti etnici, e attraverso forme di denuncia sociale in Occidente.
In particolare, si notano le fratture originate da una situazione istituzionale precaria e da un indebolimento ulteriore della sicurezza economica, che si convertono di fatto nello sfogo sulle differenze etniche e religiose, trascurando l’eventualità di una più sofisticata organizzazione del lavoro e, al contempo, di un rinnovato modello di sviluppo economico tutto europeo, che sappiano essere anzitutto sostenibili, inclusivi e redistributivi fra le diverse culture che animano da sempre la produttività e le storiche ragioni della complessità sociale nell’Europa politica.
Sebbene al processo di integrazione si stia sovrapponendo con impeto l’integralismo, occorre non dimenticare che tali manifestazioni del Nazionalismo non sono il pretesto isolato di gruppi guerriglieri, bensì sono circoscrivibili politicamente, ad alcune organizzazioni che trovano consenso popolare nei ceti più colpiti dalle crisi nazionali ed internazionali.
Il ricordo delle guerre etniche, le rivendicazioni geografiche, la paura di perdere i propri riferimenti tradizionali, la convinzione di rispondere alla perdita di competitività per mezzo del protezionismo in economia, l’avvertito smarrimento nelle relazioni diplomatiche e dentro la comunità internazionale, servono così per strumentalizzare antichi rancori e per catalizzare questo sentimento di comunanza nazionale verso l’emergente Populismo della nuova destra.
– UNA DEMOCRAZIA DI OPINIONE.
I movimenti populisti, oggi, raccomandano una ‘democrazia di opinione’, che trasformi in legge le pulsioni del momento: il popolo, affermano, sa quello che le élite non hanno né vissuto né capito. Bruxelles è la loro bestia nera, a cui aggiungono la xenofobia, la ricostituzione di un’identità etnica, la denuncia della società multiculturale e, soprattutto, l’Islam.
E’ infatti un dato ormai chiarito in tutta Europa, che una fetta consistente del ceto popolare sostenga elettoralmente organizzazioni politiche di stampo nazionalista. Si rivela una presa di coscienza circa la rottura del tradizionale blocco sociale operaio, da una collocazione che lo vedeva in passato più attento e sensibile verso schemi di solidarietà sociale, mutualismo e integrazione.
Prima l’11 settembre, e in seguito gli effetti della crisi finanziaria nel corso degli anni Duemila, hanno manifestato e accentuato tali pulsioni, orientate alla discriminazione e all’intolleranza, spesso giustificate e appoggiate da un ceto popolare e tutt’altro che patronale.
I grandi gruppi industriali, all’interno della crisi dei mercati e del debito, d’altronde si inseriscono nei processi politico-decisionali mediante la vicinanza alle organizzazioni liberal-conservatrici, in quanto consentano manovre di governo indirizzate alle deregolamentazioni; alle privatizzazioni; alle delocalizzazioni; ai tagli sul costo di lavoro e in particolare su lavoro, istruzione, ricerca e formazione professionale; all’annullamento del costo di licenziamento e della protezione sociale, alla promozione di politiche mercantilistiche deregolamentate e globalizzate che, pertanto, sappiamo, vanno a incidere in modo negativo sulla coesione sociale e sull’impatto ambientale.
Pertanto, la classe operaia si vede più interessata ad assecondare manovre sull’ordine pubblico, decisioni per la sicurezza, la conservazione del patrimonio culturale e dell’appartenenza nazionale, nell’eventualità di un accentramento economico in mano ai singoli governi.
La valvola di sfogo all’accentuarsi di queste preoccupazioni è sempre di natura economica, ma sottolineando effetti particolari della crisi del sistema produttivo attuale e dell’avanzata dell’economia globalizzata, quali il progressivo aumento dei flussi migratori e di capitali e il loro impatto sui servizi pubblici essenziali e la stabilità dei rapporti di lavoro.
Quindi queste circostanze giustificherebbero il timore che lo Stato venga privato di importanti mezzi per far fronte ai bisogni dei ceti disagiati, fra i quali quello operaio e agrario (in maggioranza nell’Est).
Ciò alimenta una spinta operaista dei movimenti nazionalisti, che spesso declinano in preoccupanti pretese di “purificazione” e di “protezione” del tessuto storico-culturale. Quest’ultimo aspetto è una invenzione che serve per fomentare consenso e mobilitazione politica, ma che sembra trovare un forte input sociale fra le masse popolari, in questi tempi.
DIALOGO FRA CIVILTA’.
Preoccupa il dato elettorale registrato a Vienna, i referendum svizzeri, l’avanzata dell’estrema destra nel Benelux e in Scandinavia, le misure adottate da Sarkozy e dal governo Berlusconi. Prendono piede nei seggi i vari Wilders, discepoli di Haider, Jobbik, anche la Lega.
Alla fine degli anni Novanta, Jean-Yves Camus aveva teorizzato il concetto di “populismo alpino”. Allora, infatti, il Partito austriaco della libertà (Fpö) di Jorg Haider si alleava con i conservatori in Austria, l’Unione democratica del centro (Udc) di Christoph Blocher si rafforzava in Svizzera e la Lega Nord entrava nel governo di Berlusconi. “Nei loro discorsi”, spiega Camus, “i tre partiti si assomigliano: ai margini della Mitteleuropa, questo cuore alpino veicola i ricordi della minaccia ottomana, l’ossessione dell’Islam e lo spettro della guerra jugoslava, all’origine dei vari flussi migratori”. Il Populismo alpino è il prototipo delle nuove destre populiste dell’Europa occidentale. Poi si è aggiunto un elemento facilmente strumentalizzabile: gli attentati dell’11 settembre 2001 e la fobia dell’Islam. Di recente la Svizzera si è espressa per referendum contro la costruzione dei minareti.*
Gli Europei rischiano di sprofondare ancora di più in questa paura di tutto che finirà per isolarli. La paura dell’Islam ci sta facendo perdere un’occasione storica di avvicinarci alla Turchia, di consolidare la democrazia e la laicità nel più dinamico e moderno dei paesi musulmani, di trovare nuovi mercati, di sviluppare un sistema di integrazione sociale transnazionale e di offrire al Medio Oriente e al Mediterraneo l’esempio di un destino diverso da quello della regressione fondamentalista, di natura islamica, ma per molti aspetti anche nei Paesi a maggioranza cattolica, se vogliamo.
La paura del superamento degli stati-nazione, con cui si identificano i compromessi sociali del secondo dopoguerra, ci sta facendo perdere la possibilità di avere ancora potere decisionale e importanza strategica in un secolo in cui le medie potenze di ieri non conteranno più.
Esiste infatti una spiegazione che è direttamente collegata con la crisi delle sinistre socialdemocratiche e anticapitaliste europee e che è circoscrivibile alla disintegrazione del classico blocco sociale operaio e nella mutazione dei flussi elettorali.
IL DIVARIO CLASSISTA RITORNA IN AUGE.
Siamo di fronte dunque a del consenso popolare, costituito non da un imprecisato “ceto medio” (ormai in via d’estinzione), bensì da quella forbice tra privilegiati e discriminati che va caratterizzando chi oggi da una parte si sta arricchendo grazie alla speculazione, ai paradisi fiscali, alle delocalizzazioni e all’emarginazione del primato politico-amministrativo dell’Unione Europea sulla propria economia interna mentre chi ancora, d’altra parte, sta pagando le misure di austerità a partire dai tagli sui servizi pubblici essenziali e sulle tutele del lavoro.
Perciò esiste una suggestione di massa, che trova delle spiegazioni socio-culturali non trascurabili e che poi finisce per ripercuotersi nella dimensione politica, con tutto quello che può seguire sulla legislazione, sui provvedimenti amministrativi, sulle politiche estere e finanziarie, sulla tutela dei diritti umani.
Ciò che è stata superata semmai è l’atomizzazione (individualista ed edonista) del tessuto sociale, in quanto la progressiva precarizzazione del lavoro; le errate misure assistenzialistiche (ad esempio la condizione dei cassintegrati, specie nel settore industriale); la continua delocalizzazione di risorse, capitali e impieghi che colpisce ampie fasce di lavoratori, studenti e ricercatori; la mancanza di legislazioni egualitarie fra la condizione degli stranieri e quella dei connazionali, stanno provocando una estremizzazione del conflitto sociale, che viene fortemente esasperata dall’estrema destra con il progressivo sostegno delle masse popolari, le quali vedono in alcune critiche e in certi attacchi l’essenza stessa del decadimento sistemico del modello produttivo odierno e dei rapporti di lavoro che vi stabiliscono.
E in questa analisi – specie in Italia – ha forte responsabilità la fine dell’unità sindacale e della concertazione fra le parti sociali per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali. La classe operaia non è semplicemente vittima di una alienazione culturale, bensì è consapevole della propria condizione sociale ed è in grado di accedere alla partecipazione politica e alla rappresentanza istituzionale, tuttavia riconoscendosi in una offerta elettorale e in una critica sistemica che si sono man mano allontanate dalla tradizionale sensibilità sulla solidarietà sociale o sul mutualismo per via di una errata interpretazione delle priorità al tempo della crisi.
Ciò riguarda in primis il grado di convincimento e di mobilitazione che hanno assunto varie forze politiche organizzate in Europa, esasperando alcune questioni che evidentemente hanno trovato interesse e appoggio all’interno del mondo del lavoro.
La Sinistra ha il compito di prenderne atto.
* paragrafo tratto da http://www.finanzainchiaro.it/dblog/articolo.asp?articolo=7828
Demi Romeo_22 anni per adesso. Rompiballe dichiarato e cinico osservatore della società politica di regime, ormai è vittima delle incresciose fasi di mobilità internazionale che lo costringono all’asilo politico presso le sezioni socialiste d’oltralpe. Calabrese sofisticato, stranamente non va pazzo per la ‘nduja.
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