[Bye Bye Blair] Il socialismo europeo tra il Gambero Rosso e un futuro da scrivere
giovedì 14 aprile 2011 | Scritto da Stefano Del Giudice - 1.758 letture |
L’uscita di scena di Zapatero, che ha deciso di non ricandidarsi alle prossime elezioni e passare la mano, segna probabilmente il tramonto della stagione “glamour” del socialismo europeo, ingentilitosi di pragmatismo liberal-labourista per sopravvivere all’era thatcheriana. Sono stati anni a fasi alterne, ora ricchi di vittorie e grandi illusioni, ora amari per le cocenti sconfitte ed i continui sforzi di far coincidere riformismo ed edonismo raeganiano. Non è un caso, infatti, se l’epilogo della parabola del premier spagnolo coincide con l’impennata di consensi che il nuovo leader laburista Milliband, partito a fari spenti fra lo scetticismo generale, ha saputo calamitare su di sé , ponendo l’accento sui problemi di una recessione non ancora superata, ma soprattutto sul tema schiettamente “sinistrorso” delle troppe diseguaglianze sociali ancora da rimuovere.
Il segnale è politicamente interessante , soprattutto perché può segnare una svolta epocale e chiudere finalmente il lungo periodo iniziato verso la fine degli anni 70, con le riforme del mercato del lavoro volute in Inghilterra dal governo Thatcher: fu allora, con l’Europa ancora stordita fra le ansie della guerra fredda e dello shock petrolifero, che le democrazie occidentali decisero che era arrivato il momento di raccogliere la sfida e liberalizzare, uscendo dalla logica di relazioni industriali che ingessavano i rapporti economici e frenavano la crescita del prodotto interno lordo; fu allora che le destre ad ovest e ad est dell’Atlantico decisero di cogliere il desiderio del ceto medio di uscire dal peso esistenziale di una coscienza collettiva troppo opprimente e di recuperare il tempo perduto a colpi di gioia di vivere ed affermazioni personali. La sociologia del tempo (Alberoni docet) si prodiga a spiegare questo nuovo bisogno di privato, mentre l’economia spiega efficacemente che l’uomo, per essere felice, ha bisogno di gratificazioni economiche e di carriera, ma anche di dare sfogo a quell’insostenibile leggerezza dell’essere che, secondo Milan Kundera (il guru per eccellenza dei nuovi tempi) rappresenta il suo lato emotivo più rilevante. E’ la ricetta degli anni ’80, gli anni che qualcuno ha definito “stupidoni” ma che la storia, prima o poi, dovrà studiare attentamente, sia per la svolta liberista più che liberale inaugurata dalla Thatcher, sia per la forte impostazione mediatica che il grande comunicatore Ronald Raegan seppe dare alla sua politica decisionista, capace di bombardare di santa ragione un certo Gheddafi e di fare la pace in nome degli affari con l’orso sovietico dalle unghie ormai spuntate.
Piaccia o non piaccia, gli anni ottanta sono gli anni in cui proprio Raegan cambia la politica e dimostra efficacemente come un ex attore hollywoodiano possa parlare a milioni di elettori guardando fisso una telecamera e riuscendo a catturare molti più consensi di un politico consumato: un uomo solo, con le idee chiare ed un modo incisivo di esprimerle, rappresenta un modello, un esempio di affermazione personale da seguire e possibilmente imitare magari non solo in politica.
Tradotto in termini elettorali, tutto questo spiega l’avanzata generalizzata del centro destra in Europa ed in America, mentre la caduta del muro di Berlino non distrugge soltanto l’impalcatura del vecchio socialismo reale, ma innesca una forte involuzione in termini di consenso anche in quei partiti comunisti che, come in Italia, si erano decisi a tagliare il cordone ombelicale con Mosca per costruire qualcosa di nuovo. Ecco perché, alla fine, ho esordito scrivendo che la vocazione liberal-labourista del socialismo europeo è stata innanzi tutto una questione di sopravvivenza: se la spinta alla modernizzazione del Paese è il motore del programma del Psoe e del suo leader Gonzales, in Italia Bettino Craxi prende il timone di un partito uscito elettoralmente a pezzi da una politica subalterna al PCI di Berlinguer e fa propria la lezione di Pietro Nenni, che ritiene possibile la sopravvivenza del PSI solo in una condizione di assoluta autonomia sia dalla DC che dal PCI.
L’onda lunga del craxismo, arrivato alle soglie degli anni novanta, è sostenuta da una politica di espansione economica, ma anche da tappe di segno decisamente neo-thatcheriano quali l’abolizione della scala mobile e l’ossessivo slogan “meno Stato, più mercato”. Dal punto di vista sociologico, poi, un’orda di partite IVA con i vestiti griffati ed un desiderio inconfessato di discoteche alla moda e macchine fatte col “leasings” (immortale espressione del grande Jannacci) ha rappresentato lo zoccolo duro di questo popolo “ di sinistra ma non troppo”, capace poi di superare la fine politica del craxismo approdando indifferentemente nel calderone berlusconiano o nelle periferie del soggetto sorto dalle ceneri del PCI, ondeggiante fra i sarcasmi dalemiani ed il buonismo glamour- veltronico.
Sembrerà una bestemmia, ma la sinistra che ha scoperto il Gambero Rosso ed il trading in borsa, un po’ tecnocrate, un po’ radical chic, è figlia di Craxi esattamente come Tony Blair ed il suo New Labour sono stati il volto carismatico e ben educato con cui il socialismo inglese si è presentato per tenersi al passo con i tempi ed esistere politicamente, sforzandosi di mantenere un certo appeal presso una società civile ormai permeata di individualismo, anche nelle sue implicazioni peggiori.
Così, mentre il social –pragmatico Zapatero conquista la cattolica Spagna proponendo liberalizzazioni e matrimoni gay, l’unico dinosauro del socialismo di base sembra essere rimasto l’eroico Schultz ,abbarbicato ai banchi dell’Europarlamento per sfanculare il magnate Berlusconi in conflitto d’interessi anche con se stesso: insomma, fra sconfitte elettorali e messaggi politici deludenti,le sinistre possono dire di aver vissuto la conclamazione della propria crisi, dovendo persino sorbirsi i de profundis di pensatori in trasformazione del calibro di Rutelli e Massimo Cacciari ,pronti ad intonare il requiem per l’idea stessa di socialdemocrazia e ad inneggiare ad una “nuova politica” talmente nuova da non recare neppure traccia di contenuti intelligibili.
Non si può trascurare ,d’altra parte, che il taglio schiettamente individualista dell’età raeganiana ha portato fatalmente ad una alterazione del rapporto fra i partiti politici ed i propri leaders ,che sono divenuti spesso talmente opprimenti e totalizzanti da uccidere ogni tentativo di dibattito interno .Questo fenomeno ha sicuramente privilegiato le formazioni di centro- destra ,per molte ragioni assai più portate ad accettare e sostenere il ruolo di personaggi capaci di calamitare consenso con l’immagine della propria affermazione. Il caso dell’Italia ,anzi,ha addirittura dimostrato come la destra abbia potuto sostituire i partiti tradizionali con le formazioni create in provetta dall’edonista Berlusconi ,mentre questo percorso sia molto più sofferto e tribolato se intrapreso da una formazione di impostazione riformista come il PD.
Ma ecco Milliband. Già,Milliband, il leader che non ti aspetti e che al di là delle formule e delle targhette ideologiche ,torna a parlare di storture del mercato e di disuguaglianze da rimuovere. Forse,ora che ci sono meno soldi per fare la bella vita e gli abiti griffati costano troppo anche per un direttore di banca,il lato serio del socialismo torna ad avere una attualità ed una prospettiva , magari incarnata nella promessa di un modello di sviluppo realmente sostenibile e più equilibrato, in cui il concetto di società solidale non è un condensato di banalità e di buonismo,ma è il concreto operare di un sistema complesso di distretti produttivi, di comunità desiderose di ritrovare dignità ed equilibrio, e di una società generalmente bisognosa di ridarsi un futuro e di ritrovare un’etica civile degna di questo nome. C’è insomma da tenere insieme PIL e valori etici, tenendo a mente che gli anni 80 hanno prodotto i libri di Alberoni ,ma anche l’efferato delitto di Pietro Maso e le bolle speculative della finanza trafficona .
E’ chiaro comunque che l’ideologia non può più essere interpretata secondo i vecchi modelli e che una nuova possibile primavera della socialdemocrazia europea deve passare necessariamente per una leale osmosi con le forze contigue ,che siano di ispirazione “liberal” o cattolica, ma certamente uscire dall’ambiguità di un “nuovo senza identità” può addirittura giovare ad un sano e costruttivo dibattito che abbia la forza di partire da un punto fermo: l’era del thatcherismo e del mito dell’affermazione personale sta finendo ,come sta finendo l’utopia dei grandi condottieri di partito e d’impresa ,degli “uomini soli al comando” arroganti e ben pagati a suon di stock option. C’è bisogno di un sistema che sappia creare valore, non solo economico, e distribuirlo nella società, cercando di restringere progressivamente le sacche di emarginazione ed esclusione con politiche mirate nel breve e nel lungo periodo. C’è bisogno di una nuova tutela sociale e di un nuovo codice etico da condividere per salvare l’ambiente in cui viviamo ed il nostro futuro,che torna a coincidere se considerato dal punto di vista del singolo o da quello della collettività. Chi non ci crede, pensi a Fukushima.
Stefano Del Giudice_nato a Montevarchi 45 anni fa, nonostante l’età e studi classici conserva il gusto per il “politicamente scorretto” ed i punti di vista rigorosamente impopolari.
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