[C’è chi dice mmmh] Non sarà privatizzata, ma perché interessa tanto agli investitori privati?
giovedì 9 giugno 2011 | Scritto da Redazione - 1.277 letture |
Ok è lunghetto, ma ce lo consiglia il nostro grande Filippo Modica, garanzia di qualità. Leggete e giudicate! Ah, lo trovate anche qui.
GATTA CI COVA… Inquietanti gli interrogativi possibili sulla questione dell’acqua pubblica da parte di un “ultras liberale” per avventura anche “ultras ecologista”… Perché si invoca la libertà di mercato, stranamente, solo a proposito dell’acqua, storicamente noto bene pubblico, che darebbe oltretutto scarsi profitti? Come mai gli stessi politici che hanno conservato a tutti i costi la proprietà pubblica dell’Alitalia anziché farla fallire, che hanno finanziato la Fiat, che avrebbero voluto chiudere un occhio sullo scandalo Parmalat, che hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte ai ripetuti imbrogli delle banche, e che non vogliono privatizzare neanche la Rai, sono ora così interessati agli acquedotti? Gatta ci cova… Non è che sotto il finto idealismo della “concorrenza” (ben difficile da realizzare negli acquedotti, che sono ciascuno un unicuum, una sorta di “monopolio” naturale…) si vogliono nascondere i soliti favori a ditte amiche, senza che i cittadini-consumatori – posti sempre in secondo piano e lasciati nell’ignoranza – possano esperire i propri controlli, come pretende il sistema liberale? Perché tutto questo interesse? “Libertà di mercato”, e pure zoppa, solo qui, dove è impossibile? Gatta ci cova…
FONDAMENTI. Intanto ripassiamo i sacri princìpi. La libertà di iniziativa privata è un cardine del sistema economico liberale e occidentale. Chiunque, senza difficoltà legali o impedimenti burocratici, deve poter intraprendere, commerciare, produrre. L’unica selezione possibile deve essere quella del merito e della concorrenza. E i prezzi devono automaticamente definirsi solo per l’incontro tra domanda e offerta. Se questo avviene, i costi e i prezzi saranno i più bassi possibile.
Questi principi vanno ricordati, perché il libero mercato, purché gestito da poche ma severe regole, coincide con una economia liberale, ed è per analogia fondamento e condizione delle stesse libertà politiche.
MA IN ITALIA LA REALTA’ E’ BEN DIVERSA. Tra le regole – di rado rispettate in Italia – la prima è il divieto di monopoli e oligopoli, la seconda è che le aziende private devono far da sé, a costo di fallire, senza richiedere o ottenere ripianamento delle perdite o finanziamenti dallo Stato, la terza è l’equiparazione nei diritti tra produttori e consumatori. E ce ne sono altre.
Senza queste regole che garantiscono la concorrenza, la libertà degli imprenditori e di tutti i cittadini consumatori, non si verificherebbe la “uguaglianza nei punti di partenza”, condizione indispensabile nella duplice gara tra imprenditori privati e tra domanda e offerta, ma solo privilegi, favoritismi, corruzione, protezionismo, parassitismo, prezzi imposti, aumento ingiusto della tassazione, statalismo occulto, e comunque una economia da rapina e la decadenza economica e politica.
MERCATO ARRETRATO E POCO LIBERALE. Già questo preambolo fa capire quanto sia arretrato e poco liberale il capitalismo italiano, che già dal primo Novecento è parassitario nei confronti dello Stato, ricercando sussidi, finanziamenti, incentivi, opere pubbliche, commesse a condizioni di favore, prezzi imposti, divieti alle importazioni, rottamazioni di prodotti, cassa integrazioni date a comando ecc. Valga per tutti l’esempio classico della Fiat, accusata periodicamente di “privatizzare i profitti e statalizzare le perdite”. Con i soldi spesi dagli Italiani in tanti decenni per “salvarla” tutte le volte che è stata in crisi, i consumatori avrebbero potuto letteralmente comperarla. Ma anche il tracollo della Parmalat, i lunghi e inefficienti monopoli o oligopoli di banche, telecomunicazioni, energia, ferrovie, poste ecc, ufficialmente “privatizzati”, dimostrano l’inefficienza del sistema capitalistico italiano fondato comunque sulla mancanza di vera concorrenza, sulla disuguaglianza nei diritti tra produttori e consumatori, e sull’appoggio dello Stato.
MACCHE’ “PRIVATIZZAZIONE”, SOLO I NORMALI PROFITTI. E’ anche vero che, nonostante una diffusa vulgata demagogica, come ben dimostra il sito economico La Voce, l’attuale legge che si vuole abrogare non prevede nessuna privatizzazione forzata dell’acqua, e neanche mette in discussione la natura pubblica del servizio, l’accesso di tutti e il diritto dei cittadini-consumatori ad avere il bene pubblico acqua a condizioni accessibili. La legge, oltretutto, fu varata da un Governo “riformatore” piuttosto liberista di Centro-sinistra, e porta le firme di Prodi, Lanzillotta, Bersani e Di Pietro (oggi gli ultimi due, sull’onda dell’indignazione popolare, hanno cambiato idea e sono per… abrogare se stessi!). A ben vedere – spiega il sito con chiarezza e in modo convincente – non è l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi dell’acqua di rubinetto, ma semmai una legge Galli del 1994, finora poco attuata, che ha defiscalizzato la gestione dell’acqua sottraendola al ripianamento del passivo da parte del Ministero del Tesoro. Secondo quella legge, qualunque gestore, pubblico o privato che sia, deve finanziarsi ricorrendo al mercato o alle proprie tasche, e quindi a deve basarsi su regole tariffarie uguali per tutti – pubblici o privati – in modo che la tariffa copra i costi di gestione, gli ammortamenti e il costo del capitale investito. Certo, bisognerà vigilare che non contenga anche extraprofitti.
Inoltre, la legge che si vuole abrogare riguarda non solo l’acqua ma anche altri servizi pubblici locali di rilevanza economica, come i trasporti e la nettezza urbana.
PERO’, IL PREZZO IN BOLLETTA AUMENTERA’. In quanto al prezzo finale dell’acqua di acquedotto per i consumatori, gli economisti del gruppoLa Voce, lo calcolano oggi in media circa 90 euro/anno a testa. A regime potrebbero diventare il 20 per cento in più, e sul lungo periodo 140-150 euro pro-capite. Pur essendo 50 centesimo al giorno, non è poco, specialmente dopo anni e anni di una profonda crisi economica. Perciò, La Vocesuggerisce un sistema di tariffe progressive che faccia pagare di più chi ha redditi più alti, e meno chi ha redditi bassi. Questo, anche a nostro parere, a parità di efficienza, potrebbe risolvere il problema dell’impatto sociale.
MA, ALLORA, PERCHE’ ATTIRA TANTO GLI INVESTITORI? Ma se questo è vero, se l’acqua pubblica non sarà mai privata, se il profitto possibile sarà modesto e analogo ad altri settori meno gravosi, non si capisce come mai, allora, i “privati” (la parola è forse diventata un simbolo, una vuota etichetta ideologica, oppure una scusa di copertura?), incapaci di gestire al meglio l’economia tradizionale privata, ci tengano così tanto a gestire i cosiddetti “beni pubblici”, come l’acqua degli acquedotti che servono i vari Comuni italiani. Hanno forse dato buona prova di sé nell’alimentazione, nell’energia, nelle banche, nelle telecomunicazioni? No. Eppure sono settori molto più “facili”, dove si potrebbe esplicare una vera concorrenza. E invece, quale concorrenza si può esprimere, per esempio, nella gestione dell’acquedotto di Tivoli? E’ forse possibile a tanti altri competitori installare altre tubazioni sotterranee parellele? E’ chiaro che la concorrenza per la gestione degli acquedotti è limitata alla fase dell’affidamento ad un gestore mediante gara, ma questo avviene ogni 10 o 20 anni! Oppure la concorrenza la valuteranno a cose fatte, tra 200 anni, i posteri, valutando storicamente i rendiconti delle varie società succedutesi nella gestione? E, visto che le tubazioni sono spesso antiche e bucate, con problemi di inquinamento e depurazione, chi sarà il privato “anima pia” e generosa che vorrà buttare nell’investimento o nell’ammodernamento milioni di euro senza rifarsi subito aumentando drasticamente il prezzo del servizio sulle bollette (in un periodo di grave crisi economiche per le famiglie, oltretutto), oppure – se i consumatori protesteranno – andando a piagnucolare dallo Stato per avere finanziamenti sottobanco o il ripianamanento illegale del passivo di bilancio? Questo è il punto, che visti i precedenti, anche un liberale deve considerare.
ALTRO CHE PUBBLICO-PRIVATO. CI SONO SOSPETTI DI FAVORI E RICOMPENSE SEGRETE. Insomma, è forte il sospetto che la minacciata o temuta “privatizzazione” dell’acqua, quando il Governo non riesce, e neanche vuole, privatizzare un ente pubblico inutile e parassitario come la Rai-Tv, possa in realtà nascondere favori promessi ad aziende italiane amiche, ammanicate col Potere, che magari si dibattono nei gorghi della crisi (nel loro caso, sì, giudicata grave…), oppure debiti economico-politico da pagare alla Francia o alla Germania, o a qualunque altro Paese, in cambio di non si sa quali vantaggi per la classe politica di maggioranza.
Quello che conta è la qualità della gestione e dell’impianto. E a queste condizioni, neanche un liberale e liberista Doc ci sta a cadere nel mistificatorio tranello lessicale “pubblico uguale efficienza” e “pubblico uguale inefficienza”, come se si trattasse di ricorrere a quello che viene definito una sorta di “idraulico privato ed efficiente” chiamato in soccorso da sindaci e presidenti di Regione per riparare mani e tubi bucati dell’acqua pubblica. Insomma, gli ideologismi fondati sulle parole, solo parole, “pubblico” e “privato”, sono inadeguati, perchè la realtà riserva sorprese. Il giurista Rodotà a Radio Radicale ha ricordato che l’acqua bene pubblico è un concetto sentito da sempre nei super-liberali Stati Uniti, dove si stanno sperimentando forme di proprietà e gestione vicine ai cittadini, e che anche a Berlino, dopo una privatizzazione che aveva portato soltanto aumenti di tariffe, la popolazione ha voluto con un referendum tornare al pubblico. Sarà un paradosso, ma “i migliori acquedotti d’Italia”, quelli di Milano e provincia – ha aggiunto Rodotà – sono al cento per cento di proprietà comunale (Metropolitana Milanese) o comunque pubblica, mentre uno dei peggiori per perdite e inefficienze varie, quello di Roma (Acea), ha importanti azionisti privati, come Caltagirone e i francesi della Suez.
IL PROPRIETARIO DI UN POZZO OGGI DEVE PAGARE LA PROPRIA ACQUA ALLO STATO. Altro che scontro ideologico sui sacri princìpi liberisti, o mistica della “iniziativa privata” finalmente applicata agli acquedotti in Italia, dopo tanto statalismo! Questa è solo retorica, che nasconde secondi fini. Come mai, allora i tanti neo-liberisti – provenienti dalla Destra, ma anche dai Radicali (“corrente Luiss”) – non battono ciglio sulla legge che da alcuni anni obbliga il proprietario a denunciare pozzi e sorgenti esistenti sul proprio campo privato, ad installarvi a proprie spese costosi contatori, e poi a pagare allo Stato tutta l’acqua che consuma – la propria acqua, metro cubo per metro cubo – per usi casalinghi? Senza essere neanche sicuro della sua potabilità: deve spendere 200 euro per farla analizzare. Non crediamo proprio che in Gran Bretagna o Canada un cittadino che ha un pozzo non possa bere la propria acqua gratis. Eppure ora paghiamo allo Stato la pioggia che riceviamo, così avvalorando l’antico detto “Piove, Governo ladro”. Finiremo un giorno, con la medesima logica giuridica, per dover pagare anche l’aria che respiriamo? Ma su questa assurdità i nostri neo-liberisti di complemento tacciono, preferendo esercitarsi, anziché sulla tutela e sull’uso gratuito delle acque private, sulla “libertà” di eventuali speculazioni di investitori, lobbies e manager affaristi sull’acqua altrui, cioè quella pubblica! Un assurdo molto sospetto.
LA VERA CONCORRENZA? UN ACQUEDOTTO ALTERNATIVO IN PARALLELO! Certo, se ci sono investitori davvero liberi e capaci, desiderosi di quei modesti profitti e delle inevitabili grane sociali, si accomodino. Ma prima devono aver dato prova di efficienza e merito in altri campi. E poi dovrebbero, in molti casi, rifare le tubazioni e gli impianti. Se no, sarebbe troppo facile, senza toccare nulla dell’elemento più importante di questo strano e unico “bene pubblico” che è l’acqua di acquedotto, cioè la componente tecnica, attaccarsi solo alle tariffe, quelle che i consumatori sono costretti a pagare, come sicura e senza rischi fonte di ricavi. Bel “capitalismo” assistito, capitalismo facile “da tariffe pubbliche”. Sembra quasi una cosa socialista quella che vogliono i cosiddetti “privati” che amano poco il rischio e perciò si buttano sugli acquedotti pubblici… Senza contare, poi, che con loro ci sarebbe solo un’alternanza al vertice del potere gestionale, non una concorrenza reale. Cambiare gli uomini non basta. Perché, sia chiaro, ripetiamolo ancora una volta, nella gestione degli acquedotti storici, ciascuno diverso dagli altri, non ci può essere concorrenza vera, a meno che un folle costruisca una tubazione gemella in parallelo dando modo ai consumatori, solo commutando una manopola, di valutare le diverse qualità e i diversi prezzi dell’acqua.
E POI C’E’ GIA’ UN’ACQUA PRIVATA. Si vuole l’acqua “privata”? Già c’è, e perfino troppa e inutile: quella in bottiglia. Con la sua concorrenza deformata, con la sua pubblicità scorretta e mistificatrice (si pensi all’assurdo di vantare come pregio un difetto, quello dell’acqua “oligo-minerale”, o alla boutade dell’acqua “povera di sodio”: tutte le acque da bere lo sono), con i suoi cartelli economici, i suoi oligopoli e monopoli, i suoi camion Tir che viaggiano in lungo e in largo sulle autostrade e strade locali trasportando l’inutile, in questo caso, elemento. Oltretutto in bottiglie di plastica. Quando verranno vietate per legge queste bottiglie di plastica colpevoli di grave e diffuso inquinamento?
NON E’ CHE POI BUSSERANNO ALLA CASSA? Perciò, chi è liberale e-o ecologista, sapendo bene che Regioni e Province, che piangono miseria strapagando però i propri uffici e il personale politico della peggiore Casta, sosterranno di “non avere soldi” e affideranno a consorzi di affaristi rotti ad ogni avventura e col pelo sullo stomaco la manutezione e il restauro delle reti idriche italiane, sa che è possibile votare sì o no al prossimo doppio referendum sull’acqua del 12 e 13 giugno, sentendosi ugualmente in pace con la propria coscienza laico-liberale e ambientalista. A seconda che si sottolinei l’uno o l’altro dei contrapposti aspetti della complicata vicenda già accennati (si leggano i due articoli nei collegamenti seguenti). Ma, se non ideologicamente, forse avranno ragione politicamente quelli che voteranno sì, se non altro per dare una risposta al cinismo di una classe politica di una Destra finora anti-liberale e perfino anti-liberista, disinteressata proprio in tempi di crisi alla ricaduta del rincaro inevitabile dell’acqua sopra le fasce più deboli della popolazione, preoccupata solo di compiacere pochi industriali amici col miraggio di una speculazione affaristica fuori mercato, fuori concorrenza e fuori di ogni possibile controllo da parte dei consumatori. Il liberale Einaudi, quello delle Lezioni di politica sociale, si rivolta nella tomba. Infatti, al di là degli ideologismi, un mercato davvero libero, cioè ben regolato, può selezionare i gestori più efficienti, qualunque sia il proprietario nominale, pubblico o privato (Lucia Quaglino dell’Istituto Bruno Leoni).
DUE ARTICOLI CONTRAPPOSTI. Sul tema, perché i lettori si possano formare un’idea, segnalo due articoli contrapposti che si propongono, entrambi dal proprio punto di vista, di “sfatare i miti” legati al pubblico-privato degli acquedotti italiani. Il primo articolo, dell’ottimo sito economico La Voce, ispirato alla sinistra liberale (alcuni commentatori sono vicini alla corrente laica e riformista del PD), spiega che in realtà la legge attuale che si vorrebbe abrogare non vuole assolutamente “privatizzare”, ma semmai permettere di affidare gestione tecnica o amministrativa solo attraverso gare pubbliche. Cosa che prima non accadeva sempre. Il secondoarticolo, fa notare che non è sempre vero che gli attuali acquedotti a gestione pubblica siano sempre inefficienti e colabrodo, e aggiunge che nei casi finora presentatisi la gestione privata ha significato bollette molto più salate.
Nico Valerio_ tutto quello che sappiamo di lui è che un liberale. In queste ore drammatoco, non ci pare affatto poco.
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