[La fine…dello stato] Breve storia di una morte lunga trent’anni
mercoledì 9 novembre 2011 | Scritto da Redazione - 1.604 letture |
Premesso questo, basta ascoltare un qualunque notiziario per sentirsi ribadire che il fallimento di uno Stato è la conseguenza della crisi del suo debito sovrano. Sembra che a nessuno venga in mente che la relazione di causa-effetto possa essere, piuttosto, quella contraria: il debito pubblico di una nazione va fuori controllo perché lo Stato che la
governa è stato privato della sua autorità di governo e di indirizzo. Il debito pubblico, cioè, si dilata a dismisura quando uno Stato è politicamente e socialmente fallito. Bene, io credo che la relazione di causa-effetto sia la seconda, e che la causa principale della recessione in corso vada ricercata in un cambio di mentalità avvenuto negli anni ’80 nelle
nazioni dell’Occidente.
Certo, prima di analizzare i fatti, bisogna ricordarsi che l’economia è una scienza monca.
Che tutti i modelli economici prendono in considerazione un numero molto contenuto di variabili. Che è largamente imprevedibile, tanto per fare un esempio, l’impatto che avranno sulla nostra economia nazionale l’espansione delle economie emergenti nei prossimi anni e la conseguente corsa all’accaparramento delle risorse residue.
Ma anche considerando uno scenario di volatilità, rimane un dato strutturale evidente:
da almeno trent’anni lo Stato (e con la parola Stato mi riferisco a tutte le realtà statuali dell’occidente) viene smantellato. Questo è un fatto incontrovertibile la cui percezione presso molti cittadini è però poco chiara, e proverò oltre a spiegarne il perché.
A trent’anni dal trattato di Maastricht e a dodici anni dall’introduzione dell’euro, sono rimasti appannaggio dello Stato europeo soltanto beni e servizi improduttivi: la sanità, la pubblica istruzione, l’esercito, le forze di polizia, l’amministrazione della giustizia o dei parchi nazionali… Lo Stato si trova costretto ad attingere risorse esclusivamente
dalla tassazione e dalla vendita di beni demaniali (che prima o poi finiscono). E quel che è peggio, lo Stato vende quando è obbligato a farlo, vale a dire in contesti di turbolenza economica, a seguito di attacchi speculativi alla propria valuta, per ripianare un deficit di bilancio. Va da sé che in queste condizioni lo Stato non è in grado di dettare il prezzo del
bene venduto.
Affrontare ideologicamente la questione non aiuta. Piuttosto, sembra utile citare alcuni esempi tratti dalla storia economica recente. Dopo la sfaldamento e il crollo dello stato comunista, la Russia di Yeltsin pratica una politica di estese liberalizzazioni e dismissioni. Ma nel 1998 arriva una crisi economica, finanziaria e politica di dimensioni
imponenti. Azioni e obbligazioni tracollano, il rublo perde il 75% del suo valore, si chiude l’era di Yeltsin e incomincia quella di Putin. Con suo grande vantaggio, la Russia torna a prendere le distanze dall’Occidente e dalle sue politiche economiche e monetarie (naturalmente, l’esempio non riguarda le libertà politiche e civili). Nel 2001, in un
punto opposto del pianeta, l’Argentina, dopo i disastrosi governi di Menem (allievo modello del Fondo Monetario Internazionale), è in preda alla più totale instabilità politica e istituzionale. Ad aggravare le cose c’è la parità forzosa del cambio dollaro-peso.
Con il divieto di prelevare denaro contante dalle banche la situazione sociale esplode e il paese va in bancarotta. L’Argentina si riprenderà negli anni successivi limitando drasticamente l’ingerenza delle multinazionali nella propria economia. Quello greco è un caso a parte: se non fosse stata una nazione dell’area euro, alla Grecia sarebbe bastata una robusta svalutazione competitiva per tirarsi fuori dai guai. O forse le sarebbe stato sufficiente costringere gli armatori a pagare le tasse (cosa che può fare soltanto uno Stato autorevole).
Eppure, è dagli anni ’90 in poi che la vulgata scientifico-economica (perfezionata nelle aule universitarie, appresa dagli studenti sui libri di testo delle facoltà economiche, amplificata dalla stampa e dai telegiornali di grande diffusione) presenta le sorti del capitalismo come magnifiche e progressive. Il privato è da esaltare, il pubblico è da
disprezzare. L’imprenditore (per definizione) è uno che si dà da fare; il politico, invece, è corrotto e l’impiegato pubblico è un fannullone. Consulenze e servizi devono essere forniti da società private, spesso pagate profumatamente con soldi pubblici. La rete autostradale, quella ferroviaria, le spiagge e un’infinità di beni che creavano rendite per
lo Stato vengono ceduti, per sempre o in concessioni di durata pluriennale, a soggetti privati. Banche ed aziende private vengono sostenute, nei momenti di difficoltà, con il denaro pubblico, senza che lo Stato si rivalga poi sui profitti privati. Così succede che il dipendente pubblico o l’ente pubblico, senza più mezzi per operare correttamente e con
rapidità, cominciano ad essere visti dai cittadini come parassiti. Gli operatori dei servizi pubblici e il ceto politico vengono accomunati nello stesso giudizio negativo.
È anche evidente che chi si dà alla politica in uno Stato senza soldi non può pensare di cambiare le cose. Le leve del controllo, della progettazione e del cambiamento non appartengono più allo Stato. Quindi, chi fa politica o è totalmente ingenuo o la fa per tornaconto personale, usando mezzi finanziari privati, propri o altrui. Il degrado dei
partiti politici e la carenza di leader carismatici nei paesi dell’Occidente negli ultimi trent’anni appare sempre più come la conseguenza delle diete imposte alla democrazia.
E se gli Stati vanno in malora, i loro servitori vanno a rotoli. Diventa incredibilmente facile, per un qualsiasi potere economico organizzato, indirizzare le scelte di un governo.
L’imposizione di tasse e balzelli (per risanare le casse dissestate dello Stato o per rifinanziare il sistema bancario) rende odiosa la classe politica. Il cittadino perde fiducia nei partiti, che diventano esclusivo strumento di interessi clientelari, e la percentuale dei votanti si riduce drasticamente. Viene perciò a mancare, in ultimo, quella larga partecipazione democratica che è il requisito essenziale per il corretto funzionamento di uno Stato. Si consolida una percezione dell’inutilità della politica la cui manifestazione accresce, in un circolo vizioso, questa stessa inutilità.
Per rimediare al guaio, si invocano “grandi coalizioni” (ammucchiate di partiti prive, per loro natura, di un chiaro orientamento politico) e fantomatici “governi tecnici”, dove il “tecnico” di turno è normalmente privo di qualsiasi legittimazione democratica e senza un solo elettore a cui rendere conto. In entrambi i casi queste forme di governo
dovrebbero servire a “garantire maggiore efficienza” e a “promuovere la libertà di concorrenza”. Cosa che puntualmente non avviene, perché in nome della libertà di concorrenza, si ignorano deliberatamente obiezioni sacrosante.
Voglio citarne almeno tre, le cui risposte sono scontate per i cultori della scienza economica (e per chi possiede una normale dose di buonsenso): per quale motivo bisognerebbe affidare lo sfruttamento di una rendita ad un privato piuttosto che a un ente pubblico? Perché un monopolio privato, in qualsiasi settore produttivo, sarebbe
preferibile a un monopolio pubblico? E se lo Stato viene smantellato, chi vigila sulla formazione di nuove rendite monopolistiche?
Basterebbe rispondere ai tre quesiti per capire come mai il ritorno ad un sistema leggero di partecipazioni statali produrrebbe indipendenza del sistema politico, prestigio della classe politica, programmazione delle scelte future di una società. Ma sappiamo benissimo che dovrebbe essere questa classe politica – svuotata, presuntuosa, distratta,
inefficiente – a creare un nuovo sistema di governo dell’economia. Ed è per questa semplice ragione che mi prende lo sconforto.
Roberto Aprile scrive da Atene, e si vede!
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