[Nord-Africa in fiamme] L’istrione ed i babbei
domenica 13 marzo 2011 | Scritto da Stefano Del Giudice - 626 letture |
Potrete pure darci dei nostalgici , ma noi di Labouratorio abbiamo alcune parole che ci sono care. Una di queste è internazionalismo, questo termine così vecchio che però, ogni giorno di più, si dimostra incredibilmente nuovo. Abbiamo lanciato una velleitaria ma accorata risoluzione sulla crisi libica, da cui un po’ tutti i leader mondiali stanno rubando idee senza citare la fonte. Abbiamo proposto per il nostro “Gotta cacth’em’all” quando ancora di Libia non si pensava, di Egitto non si parlava, di Tunisia non si capiva. Abbiamo raccontato la storia di un’espressione geografica. Ma non molliamo il tema. Questa volta Labouratorio cala un pezzo da novanta. Leggetevi l’analisi di Stefano Del Giudice, se non volete rilegare all’insensatezza questa vostra ulteriore giornata.
C’era una volta la Libia, uno scatolone di sabbia che l’Italia post unitaria decise di occupare e colonizzare in mancanza di meglio. In condizioni normali, l’opzione colonialista sarebbe stato un lusso per un Paese come il nostro, ma i politici di allora avevano bisogno di un antidoto alla disoccupazione e fu così che Tripoli diventò italiana. La caduta del fascismo ed i nuovi equilibri del secondo dopoguerra condussero all’indipendenza delle ex colonia, ma giova ricordare che la nostra comunità in Libia continuò a lavorare e produrre fino al 1968, anno in cui un colpo di Stato guidato dal sinistro colonnello Gheddafi provocò un brusco mutamento degli equilibri: le imprese italiane furono nazionalizzate ed i nostri connazionali costretti a rimpatriare con le tasche vuote, esattamente come erano arrivati tanti anni prima.
La figura di Muammar Gheddafi , il dittatore cinico e spietato , è dunque l’anello di congiunzione fra la Libia di ieri, l’ex-colonia scopertasi improvvisamente ricca grazie al petrolio , e quella di domani, aggrappata ad un futuro incerto fra speranze di democrazia e minacce di integralismo islamico: 33 lunghi anni di regime, di repressione, ma anche di propaganda anti-occid
entale e di lucrosi affari con l’Italia. Non si deve dimenticare, infatti, che il leader libico fu interlocutore non gradito ma tollerato già negli anni ’70, allorchè lo choc petrolifero e la nostra disgraziatissima bolletta energetica imposero al pragmatico Andreotti di trattare con l’istrionico dittatore e porre le basi di quella partnership commerciale fra i due Paesi che, pur fra alti e bassi,si è trascinata fino ad oggi.
Da allora, le aziende italiane hanno sempre ottenuto in Libia appalti importanti e ben pagati,mentre da parte sua Gheddafi ci vendeva petrolio e gas naturale ed entrava niente di meno che nel pacchetto azionario FIAT. I nostri politici, facendo finta di ignorare le accuse provenienti da mezzo mondo, glissavano sulle connivenze del rais con il terrorismo internazionale e si dimenticavano persino le sue frequenti invettive per una annosa questione di danni di guerra mai pagati alla ex colonia. Le cose non cambiarono, di fatto, quando qualcuno ipotizzò il coinvolgimento della Libia nella strage di Ustica o quando, peggio ancora, Gheddafi reagì ad un violento bombardamento americano sparando verso le coste siciliane due siluri che, per uno strano caso, non raggiunsero la riva, ma si persero in mare aperto. Quasi un giuoco delle parti, insomma, nonostante i continui attacchi delle motovedette libiche, pur in acque internazionali, contro i nostri pescherecci.
Le cose, se possibile, si sono acuite con la crisi economica di inizio millennio, allorchè l’Italia ha dovuto letteralmente aprire le porte al danaroso fondo sovrano libico e concedergli, nel tempo, importanti partecipazioni azionarie in settori strategici: valga per tutte, quella acquisita in un Unicredit a corto di ossigeno e liquidità, o lo stretto legame instaurato con alcune aziende del ramo militare del gruppo Finmeccanica.
Fra invettive e colpi di teatro, però, c’è da dire che Gheddafi fu abilissimo a rivoluzionare la propria politica estera schierandosi con l’America di Bush e trovando una sintonia perfetta con il satrapo Berlusconi; con quest’ultimo, anzi, intensificò ulteriormente la rete di interessi comuni fino al consolidamento di una imbarazzante e pittoresca amicizia: petrolio, pacchetti azionari e bunga bunga , inframezzate da lezioni sull’Islam in quel di Roma, saluti col baciamano e quant’altro. Il culmine di questa assurda simbiosi fra i due capi di Stato è stato certamente l’allucinante trattato con cui l’Italia si è impegnata a pagare in moneta sonante la collaborazione libica nella politica di contenimento dell’immigrazione clandestina , senza far caso alla disinvoltura con cui il lo scomodo alleato ha lasciato passare bastimenti carichi di immigrati felici e paganti ed ha barbaramente imprigionato e maltrattato turbe di disgraziati con le tasche vuote. Poca meraviglia,a questo punto, che anche i figli del dittatore abbiano trattato il nostro Paese come una specie di giardino di casa, concedendosi ad esempio effimere carriere calcistiche e vacanze in Sardegna a colpi di bella vita, festini e corse automobilistiche in notturna, con la tipica spocchia di chi sa di poter comprare tutto, legalità compresa.
Tutto questo, purtroppo, è cronaca di ieri, il risultato della storica pochezza della nostra politica estera e della nostra convinzione di essere più furbi degli altri. La triste scoperta dell’oggi, mentre la Libia si ribella al suo dittatore e l’Occidente auspica per tutto il Magreb un futuro di democrazia, è la presenza di troppe armi di fabbricazione italiana, vendute da un’azienda del gruppo Finmeccanica e transitate in modo oscuro, forse legale ma forse anche no. Ci sono poi i gruppi di armati che combattono in difesa del dittatore, mercenari arrivati anche dall’Italia in virtù di non si sa bene quale accordo. E tutto questo mentre il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sostiene di non voler “disturbare “ Gheddafi e di aver sottovalutato la situazione libica, mentre il ragazzo immagine che abita la Farnesina, il sorridente ed evanescente Frattini, racconta di un’Italia allineata alle posizioni dell’Unione europea . Tutto a posto, allora, giusto? Non proprio perché si dà il caso che l’Europa, in merito al caso Libia, sta prendendo le sue decisioni senza neppure consultarci e non è da escludere che anche nel prossimo futuro un nostro ruolo in Nord Africa, teoricamente opportuno per aiutare le giovani democrazie della rivoluzione dei ciclamini, possa essere visto con profonda diffidenza. Del resto,come si può avere fiducia nel principale alleato di Gheddafi?
Ma attenzione: non si commetta l’errore di liquidare l’imbarazzo italiano con una conseguenza del berlusconismo e delle sue nefandezze. Berlusconi non ha inventato nulla nelle relazioni italo-libiche, ma ha solo colorato il tutto con il suo vizio di personalizzare e “privatizzare” le relazioni diplomatiche: nel tempo,da Andreotti a Prodi,da D’Alema a Casini, tutti hanno scelto di fare buon viso a cattivo gioco, pur con le debite differenze di stile, nella speranza di riuscire ad ammansire il capriccioso presidente – tappetaro, arrogante ed insopportabile, ma capace di chiudere quel maledetto rubinetto del gas che ci fa tanto comodo che resti aperto.
Oggi, di fronte alle atrocità con cui la repressione scatenata dal tiranno tenta di soffocare la ribellione a colpi di mitra e fosse comuni (l’unico che non se ne è ancora convinto è l’onorevole Giovanardi) la politica italiana, ipocrita ed opportunista, si scopre indignata e fa il bidet alla propria coscienza. Speriamo solo che alla fine non pretenda di obbligare tutti noi, per l’ennesima volta, a berne l’acqua.
Stefano Del Giudice_nato a Montevarchi 45 anni fa, vivo a Pistoia da alcuni anni, nonostante l’età e più che decorosi studi classici conservo il gusto per il “politicamente scorretto” ed i punti di vista rigorosamente impopolari. Gran rompicoglioni che mette bocca dappertutto, con pericolose divagazioni nel mondo dei blog.
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