[Labouratorio 65] It’s the end of the world. As we know it
mercoledì 9 novembre 2011 | Scritto da Redazione - 1.429 letture |
E’ successo cosi, in una qualunque settimana di novembre funestata da inondazioni e altre bibliche calamità. 17 anni, 9 mesi e una manciata di giorni dalla “discesa in campo” che ha cambiato per sempre la storia di un paese e l’esperienza politica di due o tre generazioni di italiani.
Per molti di noi, Berlusconi è stato la presenza che accompagnava e condizionava in modo quasi ossessivo le nostre vite in mille modi, diversi gli uni dagli altri. Ha segnato in modo quasi traumatico le dinamiche politiche e personali di milioni di italiani e non può che essere con grande emozione e partecipazione che ci si accosta all’uscita di scena di Silvio Berlusconi dalla scena politica. Nel bene e nel male. Non potevamo dunque esimerci dal dedicargli il nostro personale addio.
Non si abbiano dubbi in proposito. Con Berlusconi è finita per sempre. Nessuna miracolosa resurrezione (nonostante l’ondata di scetticismo seguita all’annuncio dato martedi delle sue prossime dimissioni) è ormai possibile per il Cavaliere, che ha ormai irrimediabilmente logorato la sua credibilità politica, come dimostrano le batoste elettorali di maggio e giugno (direttamente attribuibili a lui e a lui solo) presso gli stessi strati sociali che mai gli avevano essenzialmente voltato le spalle in quindici lunghi anni.
Ma nell’assaporare la gioia della libertà da un’ossessione nazionale che nel bene e nel male (2% di bene, 98% di male) ha dominato il dibattito pubblico di questo paese, non possiamo non percepire l’amaro in bocca per una sfiducia arrivata dai mercati finanziari e non dal parlamento, organo sovrano facente le funzioni del popolo di fronte al mondo e alla storia.
E non possiamo proprio allora, evitare di allargare lo sguardo a quello che accade intorno a noi e cercare di comprendere la cornice che tiene insieme la miriade di fatti che stanno stravolgendo il mondo in cui abbiamo vissuto tutta la nostra esistenza.
Riprendendo il filo tracciato da Labouratorio 2.0 in questi 11 mesi, abbiamo ripetuto in modo ossessivo compulsivo come si possa individuare nella crisi finanziaria esplosa in America nel 2007 la schicchera che ha dato il via alla discesa della pallina sul piano inclinato, dapprima lenta e poi sempre più veloce, che ha portato alla più grossa crisi economica dal 1929 a oggi, comportando a catena una serie lunghissima di crisi politiche, ultima delle quali è proprio quella che ha portato a valle i residui stantii del berlusconismo.
La fine del mondo è dunque arrivata. Ma di quale mondo? In questo numero proviamo a rispondere a questa semplice domanda. Finisce come detto Berlusconi. Finisce inevitabilmente anche la II Repubblica, che di Berlusconi era l’emanazione più diretta. Ma la crisi si porta a valle anche 30 anni di pensiero unico neo,anzi ormai vetero, liberista, che in qualche modo si lega a una più generale abdicazione dell’economia alla finanza, iniziata alla fine degli anni ’70 con l’avvento al potere di Reagan in America e della Tatcher in UK.
Il portato politico della crisi trascina a mare anche i delicati equilibri costruiti a Bretton Woods alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un nuovo ordine mondiale è ancora tutto da costruire e certamente non potrà più essere fondato soltanto a partire da degli accordi tra stati nazionali, anche perchè la globalizzazione gli stati, li sta praticamente spazzando via.
E se proprio si vuole volare alto, si può addirittura argomentare che questa crisi è il suggello di un processo in atto ormai da molti decenni che vede la progressiva fine dell’egemonia occidentale sul mondo, egemonia iniziata circa 500 anni fa…
Nel tentare di rispondere a queste domande ci accompagna la consapevolezza che è solo comprendendo la portata degli eventi in atto che potremo arrivare alla ricetta per sopravvivere alla valanga e immaginare e costruire un mondo nuovo.
Ed è in contesti come questo che bisogna rimettere tutto in discussione a partire da questioni che possono apparire banali come quella del debito pubblico di un paese. In un dibattito politico sclerotizzato dominato da un’ansia irrequieta che vede nel fardello del debito quasi un peccato originale da espiare, decontestualizzandolo dalle sue motivazioni macroeconomiche, si finisce per applicare criteri morali della quotidianità, quelli per il quale un debito è intrinsecamente un male (come nella lingua, guardacaso, tedesca, dove la parola “schuld” vuol dire allo stesso tempo colpa e debito), al giudizio di un paese, che deve invece rispondere prioritariamente al principio della ragion di stato e in funzione dei propri obiettivi di fondo, misurare l’utilizzo che fa delle proprie politiche monetarie e di bilancio.
Ed è proprio l’assenza della possibilità di “stampare moneta” una delle principali, se non la principale, ragione del perdurare della crisi del debito che attanaglia i paesi dell’eurozona.
Si vede anche da queste cose come torni in modo prorompemente la necessità di porre domande di senso, sulla direzione del mondo e sui valori che ne sono alla base. E anche questo ci dice che la crisi segna e sta segnando un prepotente ritorno alla politica, quella forte, basata sulla scelte di fondo tra alternative concrete, in una cesura netta con tre decenni di pensiero unico che di fatto avevano espropriato la politica tanto dell’interesse di una fetta crescente dell’opinione pubblica quanto della capacità di incidere davvero per modificare in un senso o nell’altro lo status quo.
Del resto, e’ certamente la fine di un mondo, ma solo di quello che abbiamo conosciuto fin qui. Per ogni stagione che si chiude ce ne è sempre un’altra che si apre. E’ dunque il momento di una discussione franca e aperta sul merito delle questioni. Questioni sulle quali torneranno ad essere rilevanti le diversità di approccio, ovvero le diverse culture politiche utilizzate per inquadrare e offrire soluzioni ai problemi. Ritorno alla politica, ritorno alle culture politiche.
Per questo, non ci sentiamo di condividere gli appelli a un’unità nazionale fondata su un governissimo dalla scarsa legittimazione popolare, da una nulla identità politica e da un labile rappresentatività delle varie istanze sociali. Crediamo invece sia più utile una strenua, franca, onesta campagna elettorale, da fare in tempi rapidi e anticipata da elezioni primarie per entrambi gli schieramenti dove possa emergere in tutta la sua asprezza quel dibattito alle volte clandestino tra le anime moderate e quelle più radicali.
Abbiamo già scritto troppo, se non fosse che questo è un numero particolare. Con la fine del mondo infatti, anche Labouratorio 2.o è arrivato alla fase conclusiva. Insieme a voi che ci leggete, in questi mesi ci siamo divertiti, acculturati, provocati. Abbiamo discusso e pensato e sperato. Ci siamo mandati a quel paese più e più volte, perchè in fondo, ci teniamo alle nostre opinioni più di quanto non teniamo alla buona educazione e alla diplomazia vuota di chi cerca la pace ma non la verità. Non sappiamo se per voi che ci leggete, ne sia valsa la pena.
Per noi certamente, rimane vero questo.
Buona fine del mondo da Labouratorio!
LABOURATORIO 65
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