Dalla Sicilia, un contributo di un amico e compagno che la Tunisia macari la vede, nei giorni più chiari e luminosi.
Maghreb vuol dire “Tramonto”, proprio come Occidente. Come è noto è un’area molto omogenea dal punto di vista religioso, etnico e linguistico. Eppure i paesi che ne compongono l’identità, assai più complessa di quanto sembri, vengono spesso liquidati per ignoranza come ex colonie europee a sovranità limitata.
Al di là di facili battute, noi che viviamo in Siqiliyya, il Maghreb e i suoi abitanti un po’ li conosciamo, la Tunisia in particolare la conosciamo molto bene, ci passiamo vacanze in cui viviamo come Pascià spendendo 50 euro al giorno, abbiamo amici tunisini e connazionali che vi lavorano e, qui a Balarm, i Tunisini sono di casa.
Questo rapporto strettissimo tra Siqiliyya e Tunisia ha mantenuto il paese arabo abbastanza vicino all’area d’influenza Italiana, anche dopo che Craxi venne messo da parte.
Ciò che sta accadendo in Tunisia, ad una prima occhiata, è giunto all’opinione pubblica come un tumulto del pane, un remake in chiave “Mille e una notte” di un episodio dei Promessi Sposi. I tunisini però non stanno protestando per lo zucchero, e questo aspetto per fortuna è riuscito a passare in un secondo momento nonostante la retorica manzoniana dei media.
È crollato un sistema ambiguo (impianto definito “Democratura” da De Michelis) che, sebbene abbia portato grandi vantaggi alla Tunisia, è oramai inaccettabile per una delle società più istruite e ricche dell’Africa e del mondo Islamico. Il ceto medio manifesta e rischia al fianco degli umili e dei diseredati, non si fa differenza tra pane e “rose”, si chiede di vivere pienamente e di allargare le maglie del mercato e della vita pubblica per far compiere il salto di qualità alla nazione.
Chiaramente il vecchio regime reagisce e appronta una difesa, ma parrebbe che la Révolution Tunisienne non possa essere fermata con violenza o facili compromessi. Il problema è che, come accade durante ogni rivoluzione, al fianco delle Richieste e delle Pretese verso lo Stato, avanzano anche prepotenze verso i privati. Se una gran fetta della popolazione scende in piazza, l’altra si barrica in casa.
Non sono mancate le violenze verso la proprietà privata, sono stati fatti scappare i reclusi di alcune carceri (e non tutti erano prigionieri politici) e l’immagine che ne viene fuori non incoraggerà certamente la ripresa del turismo o degli investimenti dall’estero, vitali per il paese.
Inquietante, per i disattenti degli ultimi trent’anni, è il commento di Gheddafi, che quasi rimproverava i tunisini.
Vecchio sogno di Gheddafi è l’Union du Maghreb Arabe, coltivato per un paio d’anni insieme a Bourgouiba, e il primo passo doveva essere l’unificazione di Libia e Tunisia. Il progetto scoppiò come una bolla di sapone e i paesi del Maghreb tornarono a farsi i fatti loro, salvo qualche ingerenza militare e politica qua e là.
Anche Gheddafi ha molto investito in Tunisia negli ultimi anni, inoltre ha accolto centinaia di disoccupati tunisini, ed è pronto a cogliere la palla al balzo, però nemmeno questo Puparo maghrebino è immune al rischio di un effetto domino. Una delle prime grandi manifestazioni di piazza del Maghreb fu infatti quella libica di Bengasi nel 2006.
Infatti da parte dei media internazionali non sono mancati gli accostamenti, naturali, al resto delle rivolte e delle dimostrazioni di piazza nel resto del Nord Africa e nel Levante. C’è da dire che in America alcuni osservatori parlano di una destabilizzazione generale del Mediterraneo, affiancando ai tumulti maghrebini e mediorientali anche quelli greci, albanesi e persino quei disordini romani scoppiati in seguito della mancata sfiducia a Berlusconi, nel pieno della “rivolta” studentesca. Quindi è difficile trovare il filo conduttore coerente in tutto questo bailamme.
Eppure forse qualcosa c’è. Nell’ultimo decennio, nonostante l’Occidente dal Sangue Debole non voglia riconoscerlo, nel mondo Islamico è stato impiantato (o risvegliato) il seme della Democrazia. Nella violenza delle piazze non si può non notare effettivamente la concretezza delle richieste che animano i disordini tunisini, egiziani, libanesi e perfino quelli, non dimenticati, dell’anno passato in Iran.
Israele si è ritirata da Gaza permettendo le elezioni (comunque discutibili nello svolgimento e nei risultati), similarmente la Siria ha disoccupato il Libano, in Iraq sta sorgendo timidamente una realtà democratica, in Iran il sistema vacilla e la Libia stessa, nonostante le boutades della sua Prima Donna Gheddafi ha fatto diversi passi in avanti (non ultimo lo smantellamento delle armi di distruzione di massa). Dopo la “Primavera Araba” del 2005 forse stiamo per assistere forse alla seconda, e più radicale, presa di coscienza della neonata società civile dei nostri vicini. C’è quasi da ringraziare la “freedom agenda”.
Non dimentichiamoci comunque di cosa sta sempre in agguato fuori dalle laiche e illiberali “Democrature” musulmane: l’islamismo.
Non dimenticatevi, cari continentali, che i lupi ululano ancora fuori dai cancelli della Mela d’Oro.
Ma‘assalamat.
Al-Sajev
Roberto Sajeva, detto l’Emiro*, è il responsabile esteri della FGS, nonché segretario cittadino del PSI di Palermo. Da bravo gattopardo, ha interessi che spaziano dall’esoterismo alla zoologia. Fondamentalista siculo, anzi sicano, è celebre per la sua ospitalità. È leader di una setta magico-religiosa che si propone di fabbricare i coperchi per le pentole del Diavolo. Tra le sue principali campagne ricordiamo: “Si dice arancina, non arancino”, “Un cannolo sul tricolore”, “Doniamo l’8‰ alla Chiesa di Cthulhu” e “Il ’68 è passato, il ’77 pure, prendi un taxi e Dio t’assista”.
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