Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è il re: e gli uni fece dei, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi.
Eraclito
Abbiamo tutti ascoltato ogni tipo di argomentazione in questi giorni rispetto ai fatti di Roma. Rispetto ai black block e alle violenze di Piazza San Giovanni. Abbiamo ascoltato le sciocchezze di Di Pietro e Maroni (strane convergenze?) sulla necessità di leggi speciali per l’ordine pubblico. Qualcuno ha attribuito la causa remota alla precarietà. Altri hanno ipotizzato un’azione esemplare contro patti elettorali tra Vendola e i moderati del movimento. Non sono mancate, come sempre, ipotesi di infiltrazioni, servizi deviati e altri residui dei tempi della strategia della tensione.
La tesi più accreditata, quasi unanimemente accettata, è quella di un movimento diviso in due: da una parte gli indignati pacifici, dall’altra i facinorosi violenti.
È una vecchia abitudine, dura a perdersi. I violenti sono sempre altro da noi. Sono “sedicenti”, sono schegge impazzite, il messaggio genuino è altro.
Io credo che il discorso sulla violenza sia stato troppo in fretta liquidato. Ricacciato tra i brutti ricordi da dimenticare.
Non si può archiviare il tema della violenza con un passo indietro. Spostandosi un metro più in là. Condanna, dissociazione, biasimo. Ciò che intendo sostenere è: la violenza è un elemento consustanziale alla politica. In particolare a qualsiasi politica che voglia dirsi rivoluzionaria. Se ne possono discutere le espressioni, le articolazioni, le modalità. Ma negare che la violenza sia oggetto da dibattere, negarne il potere e il carattere dirimente è l’ennesima distorsione del dominio del politicamente corretto.
Ha scritto Vendola su Facebook che la violenza dei black block è figlia di una cultura di destra che cresce nelle curve degli stadi. È una visione certamente rassicurante. Molti di noi non frequentano affatto gli stadi. Al massimo siedono in tribuna. Nessuno si sente di destra. E tuttavia si tratta di un’enorme sciocchezza. “Ogni azione di distruzione e di sabotaggio ridonda su di me come segno di colleganza di classe. Né l’eventuale rischio mi offende: anzi mi riempie di emozione febbrile, come attendendo l’amata”. Non è uno striscione della Fossa dei Leoni. È Toni Negri. Erano gli anni Settanta. Novecento inoltrato. Quarant’anni fa. Superato, da archiviare, mi si dirà.
Il caso di Carlo Giuliani è sintomatico e ci riporta al presente. O almeno al passato prossimo. A più riprese politici della sinistra radicale l’hanno ricordato come “eroe”. Di questo ragazzo non abbiamo scritti, testamenti politici, eredità spirituali. Al di là delle rettifiche il ricorso a un certo tipo di linguaggio non può che riferirsi all’unico fotogramma conservato. Un ragazzo che agita un estintore contro un blindato. Ancora una volta è la violenza in sé ad occupare la scena. A determinare l’abnegazione di sé, la cancellazione del proprio interesse (perfino quello primario all’incolumità) in favore dello scontro politico.
“Nulla rivela più di quest’attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna…”. Toni Negri ha scritto non molti anni fa un libro, Impero, che ha spopolato proprio tra i ragazzi come Carlo Giuliani. Sostituite la moltitudine (il 99%?) alla classe operaia e avrete il nuovo Negri. Una guida per leggere gli ultimi anni.
Ma che c’entra Negri? È il teorico dell’Autonomia operaia, uno dei fondatori di Potop. Non c’entra con la storia del movimento operaio. Quello vero. Quello certificato.
“Si può parlare all’infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario, fin tanto che non vi sono miti accettati dalle masse il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna”. È Sorel che scrive. Il padre del sindacalismo rivoluzionario. Diverse generazioni separano Negri e Sorel. Ma fu proprio Sorel il primo a individuare un nucleo tematico autonomo nello scontro tra borghesia e proletariato: la violenza.In Sorel la violenza non è un’appendice fastidiosa ma necessaria nel conflitto tra classi. “Oggi non esito a dichiarare che il socialismo non potrebbe sussistere senza un’apologia della violenza”, scrive Sorel. Il mito che serve a mobilitare le masse proletarie è appunto la violenza. Che restituisce alla borghesia i soprusi subiti nello sfruttamento. Violenza contro forza. “La forza ha per oggetto l’imposizione di un certo ordine sociale, in cui governa una minoranza, mentre la violenza tende alla distruzione di questo ordine. La borghesia ha impiegato la forza dall’inizio dei tempi moderni, mentre il proletariato reagisce ora contro di essa e contro lo stato con la violenza”.
La politica è lontanissima dalla democrazia ateniese. La politica democratica immagina che la somma di tante piccole virtù individuali dia luogo a una virtù collettiva superiore. Questo era il pensiero di Aristotele (la polis come organismo con tante braccia, tante gambe, ecc.). Ma Atene è ormai seppellita. E nello scontro, nel fragore delle armi, ritorna Sparta. Città in cui la virtù era solo una: il coraggio del guerriero. Ancora Sorel: “Salutiamo i rivoluzionari come i Greci salutarono gli eroi spartani che difesero le Termopili e contribuirono a mantenere la luce del mondo antico”.
Se nemmeno Sorel vi sembra convincente, ricordate Lenin. In Stato e rivoluzione Lenin rilegge Engels. E parlando del rapporto tra lo Stato borghese e democratico e la rivoluzione corregge il vecchio Engels. Engels parlava di “estinzione” dello Stato. Immaginava che la fine della società in classi avrebbe condotto all’inutilità delle strutture statuali. E al loro inevitabile accantonamento. “La società che riorganizza la produzione in base a una libera ed uguale associazione di produttori, relega l’intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo”.
No, pensa Lenin. Lo stato democratico e borghese va spezzato. Lo Stato si estinguerà solo grazie ad un’azione violenta che imporrà come essenziali due sole funzioni: controllo della produzione e della distribuzione; registrazione del lavoro e dei prodotti. Tutti i cittadini diventano operai armati. Lavorano nella stessa misura, osservano la stessa misura di lavoro, ricevono nella stessa misura.
Violenza organizzata contro un sistema e un nemico comune.
Per affermarsi nella guerra contro il nemico comune occorre accettare il rischio dell’annientamento di sé. Che significa cancellare i propri interessi prima e dopo il conflitto. Ma ancora più radicalmente mettere a repentaglio la propria vita. Un’idea che accomuna tutte le rivoluzioni. Ce lo insegna Hanna Arendt. Parlando della Rivoluzione francese, Arendt sostiene che Robespierre abbia ereditato da Rousseau l’idea che la virtù rivoluzionaria per eccellenza sia l’abnegazione. Il rivoluzionario incorruttibile fonda questa certezza “sulla sua intima convinzione che il valore di una politica possa essere verificato in base al grado in cui si oppone a tutti gli interessi particolari e il valore di un uomo possa essere giudicato dal grado in cui agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà”.
Anche la non-violenza, quando la si osservi senza paraocchi ideologici, è solo una variante dell’estetica della violenza sin qui rappresentata. Se ne osservino le pratiche: il digiuno, lo sciopero della fame, la resistenza passiva. La violenza non è eliminata. Non è un paradigma irenico quello che ci si presenta davanti. Piuttosto è l’oggetto della violenza ad essere mutato. L’esibizione del corpo rimane. Ma il corpo ferito è il proprio. Il sasso che prima era lanciato contro il nemico rimbalza ora sul corpo di chi protesta. Anche qui annientamento di sé. Addirittura in grado superiore.
Alessandro Porcelluzzi,
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