[La fine di…cinque secoli di storia] La crisi, Copernico e The Truman Show
mercoledì 9 novembre 2011 | Scritto da Antonella Soldo - 3.629 letture |
Avete visto The Truman Show, no? A metà del film un giornalista chiede all’ideatore dello show: “Per quale motivo Truman non è mai riuscito a scoprire la vera natura del mondo in cui ha vissuto finora?” E il regista Christof risponde: “Noi accettiamo la realtà in cui viviamo così come si presenta, è molto semplice”. Poi però, un pezzo alla volta il mondo artefatto in cui il protagonista viveva ignaro dalla nascita si sgretola, si dissolve. Un elemento alla volta, l’amore, l’amicizia, la famiglia, la citta…persino quello splendido cielo blu all’orizzonte non è che un telo stampato.
Ebbene io penso che in questo momento noi occidentali siamo più o meno così. Questo bel mondo fatto di salde certezze sta precipitando, e non ci sarà manovra che reggerà l’impatto. Noi siamo come i nostri avi cinque secoli fa quando scoprono di non essere gli unici abitanti del pianeta, ma che esiste un continente altrettanto grande, quando scoprono che la terra gira intorno al sole, che il cielo non è fatto di etere e i mondi sono infiniti. Insomma, siamo di fronte ad una nuova “rivoluzione copernicana”, ma di valori questa volta. Così come nel Cinquecento è crollato il sistema aristotelico- tolemaico oggi crolla il sistema occidentale che sull’Utile ha costruito il suo potere. L’economia, l’unica scienza legittimata a perseguire quest’unico fine, ha fallito, e dalla più concreta attività dell’uomo (l’oikos nomia è l’arte di gestire la casa) si è trasformata in una mano più che invisibile imprevedibile. Della forza terrificante dell’economia virtuale hanno fatto le spese già molti popoli, storditi da eventi di cui potevano bene vedere gli effetti, nell’impoverimento immediato delle loro vite, ma le cui cause rimanevano recondite, troppo lontane, magari in qualche accordo tra banchieri stipulato nell’altra parte del globo, comunque sempre celate.
Lo sbigottimento degli islandesi, che sapevano di vivere tranquillamente in uno dei paesi più ricchi del mondo, non deve essere stato minore di quello degli europei dell’età moderna difronte agli abitanti del Nuovo Mondo, o difronte alle meraviglie del binocolo di Galilei, nel momento in cui si sono visti travolti dalla crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato. Nemmeno i greci immaginavano di essere così poveri e destinati a portare negli anni a venire la croce di un debito pubblico che non sanno nemmeno loro come sia stato rimpinguato. Gli ungheresi, i portoghesi aspettano attoniti che qualcosa accada, gli italiani sono scimuniti dalle acrobazie del governo e dai piani di salvataggio che hanno la durata massima di un pomeriggio.
La realtà è che dietro i proclami ufficiali, le prese di posizione delle istituzioni monetarie internazionali, i summit dei capi di stato, dietro tutto questo c’è un “sistema” che è comunque una costruzione storica, un’invenzione di uomini orientati verso precisi valori, e in quanto tale è fallace e passibile di essere messa in discussione. E’ la storia che ha trasformato gli uomini in cittadini nell’antica Grecia, in fedeli con l’avvento del cristianesimo, in lavoratori e classe operaia nell’Ottocento, in produttori, consumatori, investitori speculatori nella nostra epoca, e la storia non sempre è giusta.
Quello che il nostro mondo ha dimenticato in questi anni è proprio la domanda sull’Uomo. “Chi siamo?” La prima domanda della filosofia, la domanda dei bambini, resta senza risposta: “consumatori”, “lavoratori”, “produttori”, anche “cittadini” è troppo poco per definire l’umanità.
Lo stesso utilitarismo nella formulazione dell’inglese Jhon Stuart Mill teneva fermo un obiettivo: la felicità degli individui che compongono una nazione. “ Il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono- scriveva Mill nel saggio Sulla libertà- uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per fare funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire”. L’unico valore assoluto per Mill è la libertà, intesa come la possibilità per ognuno di perseguire a suo modo il suo proprio bene. Cito ancora dal Saggio sulla libertà: “la natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnato, ma un albero, che ha bisogno di crescere e di svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una persona vivente”. Nelle nostre società la felicità è un ideale per pazzi, per gente fuori dal mondo, per filosofi falliti. La felicità al limite è intesa come un prodotto, preconfezionato, ed anche i desideri non sono mai personali, sono sempre desideri della società, veicolati dalle pubblicità. Quando un bambino nasce è catapultato nella società dell’utile: tutto quello che fa deve “servire” a qualcosa, la scuola che sceglie deve essere compatibile con il mercato, persino le attività del tempo libero devono essere utili. L’utile è l’ossessione della nostra società.
Cesare Cremonini, collega e rivale di Galilei all’Università di Padova, fu l’ultimo filosofo a sostenere la visione aristotelica del mondo, e per questo si rifiutò di guardare attraverso il cannocchiale per verificare di persona le scoperte di Galilei, urlando che si trattava di uno strumento del Demonio. Ebbene, questa crisi è un momento drammatico, ma è anche la possibilità per noi di guardare nel cannocchiale e vedere che questo mondo in cui siamo calati non è l’unico sistema possibile, datoci una volta per sempre dalla natura, ma è costruito su delle idee umane, che stanno dimostrando ai nostri tempi i loro limiti e la loro fallibilità. Questa crisi è una possibilità per riportare l’economia ad una dimensione reale, per porsi nuovamente la domanda sull’uomo, e magari orientare l’organizzazione delle nostre società su criteri di bellezza e felicità, che lungi dall’essere ideali utopici sono in realtà quanto di più propriamente umano possa esistere.
Antonella Soldo, 24 anni, è una terrona trapiantata a Roma per fare cose inutili come studiare filosofia. Svezzata al giornalismo nei seriosi ambienti di Radio Radicale non è in grado di fare di sè una presentazione auto ironica.
La questione della rivoluzione copernicana è davvero ben posta, e soprattutto apre verso dimensioni parallele che, secondo me, ancora più a fondo riescono a rendere conto di quello che viviamo. Queste dimensioni parlano di auto-rivelazione, di ‘riconoscimento’, di consapevolezza di sé come persone che ‘sono’ i danni che ‘subiscono’. In parole più semplici, quello che intendo è che il vero trauma che ci troviamo ad affrontare è la resa dei conti con una realtà che abbiamo costruito tutta da soli, e che non è mai stata garantita da niente di solido – la caduta di un mondo di garanzie e di possibilità da cogliere e non da seminare, perché il mondo ci ha sempre, fin ora, abituato cogliere ciò che quello ci offriva. Ciò che hanno subito i Greci, e gli Islandesi, e gli Italiani stessi, è la caduta della mitologia da ‘Primo Mondo’ su cui avevano basato al loro religiosità civile ed i loro feticci economici – quello che ogni uomo subisce, nel suo piccolo, nella comprensione della sua fallibilità davanti ad un altro uomo che è ‘meglio’ di lui, davanti ad un altro uomo che è ‘come lui’.
I complottisti, gli ideologi, i sacerdoti dei valori sociali fanno così, continuano a cercare complotti perché un ordine perfetto ha sempre dei contro-ordini perfetti. I pochi, invece, che riconoscono la loro propria incapacità, allora possono riconoscere anche al fallibilità di ciò che essi, o chi prima di loro, hanno creato.
Credo che sia un bell’articolo Anto, come quello del doppio corpo del Re. E’ un pensiero che facevo poco fa. La rivoluzione Copernicana dei valori occidentali, a mio avviso, è effettiva e noi siamo ci siamo dentro totalmente. Sono d’accordo nel pensare che è ora di guardare all’interno del cannocchiale, ma lo dobbiamo fare con gioia, senza paura, perchè ci aspetta (come per Galilei) qualcosa di più grande di ciò che è toccato ai nostri padri. Quello che intendo dire è che la precarietà del lavoro, non avere un posto fisso noioso a 2 Km da casa non è necessariamente un male. Noi abbiamo la possibilità di poter conoscere il mondo, lavorare nel mondo, tentare la fortuna ovunque. Al giorno d’oggi è più facile che per i nostri genitori. Per farlo non si deve aver paura di guardare nel cannocchiale. Se si ha paura di spostarsi (e fidati che ce ne sono di ragazzi che nel 2011 non lascerebbero il proprio paese) non si vive nello spirito nuovo della nostra epoca. Abbandoniamo il Paese? Ben venga, non possiamo ancorarci alla nozione di Stato ancora oggi. Non ci sono più i confini? Meglio non ne voglio! La ricerca della stabilità lavorativa e familiare, è in controtendenza rispetto al movimento della nostra epoca. Perciò possiamo stoicamente accettare il movimento del mondo o strozzarci (cercando di avere quello che hanno avuto i nostri genitori) come il cane che va nella direzione opposta del suo padrone. Credo nella positività di questi cambiamenti. Credo che se li accogliamo con un atteggiamento nuovo, anche la precarietà e l’impossibilità di progettare il futuro (anche sentimentale) possono essere costruttivi. Siamo una generazione di passaggio, dobbiamo offrire ai nostri successori la chiave di un mondo regolato da valori nuovi; valori come la mobilità, l’instabilità, la globalità (facciamola diventare un valore positivo!!!)…Non posso più ascoltare chiacchiere di persone che a 25 anni dicono che si perdono i valori di una volta, le cose belle della genuinità dei nostri avi!!! Costruiamoci il futuro GRAZIE all’instabilità che ci presenta la nostra epoca. Dobbiamo voler essere instabili!