[La fine…della settima economia mondiale] L’Italia, una crisi nella crisi
mercoledì 9 novembre 2011 | Scritto da Redazione - 2.513 letture |
Labouratorio è orgoglioso di pubblicare ampi estratti di questo articolo recentemente apparso su Moneta e Credito, firmato dal professor Roncaglia e dall’economista Labouratore Carlo D’Ippoliti. L’articolo affronta in modo molto chiaro da una prospettiva economica alternativa al mainstream neoliberista i principali nodi della crisi finanziaria globale ed europea con particolare riferimento alla situazione italiana.
Le radici finanziarie della crisi
Dove si mostra come la crisi mondiale non sia semplicemente dovuta all’esplodere delle bolle e delle contraddizioni dell’insostenibile modello di sviluppo americano, ma alla natura stessa del sistema finanziario globale.
Sembra che ormai vi sia accordo unanime sul fatto che la crisi mondiale, esplosa negli Stati Uniti con il fallimento della Lehmann Brothers ormai tre anni fa, abbia avuto origini finanziarie. Tuttavia, l’importanza di questo fatto non sembra ancora percepita appieno. In occasione della crisi del debito pubblico dell’area dell’euro si è tornati ad
attribuire importanza dominante agli squilibri reali (dei conti pubblici e/o dei conti con l’estero) relegando in secondo piano i meccanismi finanziari della speculazione. E già in occasione della crisi finanziaria del 2007-2008 in molti avevano posto in primo piano lo scoppio della bolla immobiliare, senza tenere conto del fatto che le dimensioni del disastro finanziario erano ben superiori a quelle dell’insieme dei mutui immobiliari in essere in quel momento […]
Se l’unico problema negli Stati Uniti fosse stato la politica predatoria di concedere (spesso con la frode) mutui subprime, a
condizioni e tassi proibitivi, alle fasce più emarginate e povere della società (quindi prevalentemente a immigrati, Dymski, 2011), lo scoppio della bolla immobiliare non avrebbe generato la più grande
recessione dei paesi industrializzati dalla crisi del ‘29.
Certamente, gli Stati Uniti perseguivano e tuttora perseguono un modello di sviluppo
insostenibile, fondato sull’indebitamento delle famiglie e su una bilancia dei pagamenti persistentemente in passivo.[…]
Tuttavia, la crisi scoppiata nel 2007/08 non è nata da una correzione improvvisa di quelle variabili che presentano i
maggiori squilibri (Borio and Disyatat, 2011). Lo scoppio della bolla dei mutui immobiliari negli Stati Uniti ha costituito l’innesco, ma non l’esplosivo, che va piuttosto individuato nella deregolamentazione dei mercati finanziari, favorita dall’ideologia neo-liberista.
In conseguenza della finanziarizzazione dell’economia e della deregolamentazione
dei mercati finanziari, in particolare con la crescita esplosiva dell’utilizzo dei prodotti derivati, il mercato delle attività reali – che si tratti di barili di petrolio o abitazioni – costituisce la base relativamente ridotta su cui poggia una piramide capovolta di titoli finanziari e di strumenti derivati, come mostrato nella figura 1.
Figura 1 – La piramide rovesciata della finanza nei paesi del G-10, prima e dopo lo scoppio della crisi (miliardi di dollari correnti)
In primo luogo, la finanziarizzazione porta a una maggiore instabilità dei mercati, per via delle caratteristiche intrinseche dei mercati finanziari e in particolare del cosiddetto herd behaviour. Il punto è semplice, e fu bene individuato già
da Keynes, ma la teoria dei mercati finanziari efficienti lo aveva successivamente negato. Si tratta di questo: un operatore finanziario ottiene la stragrande maggioranza dei suoi guadagni non interpretando i movimenti di fondo dell’economia, ma intervenendo sui movimenti di breve e brevissimo periodo dei mercati finanziari stessi. Come operatore,
posso anche pensare che il debito pubblico italiano sia più sicuro di quello tedesco (ed è una ipotesi meno ardita di quel che possa sembrare, considerando la fragilità del sistema bancario tedesco e i costi di un suo
eventuale salvataggio: si veda oltre), ma se colgo un orientamento del mercato in direzione opposta tra oggi e domani, o anche tra ora e i prossimi dieci minuti, mi converrà operare in tale direzione, opposta alle mie convinzioni, per poi chiudere le mie posizioni il giorno o il minuto successivo. Questo spiega perché quel che tutti sapevano a proposito del
mercato immobiliare statunitense già nel 2007, o della situazione greca o italiana già nel 2010, non avesse provocato reazioni significative fin quando non si percepì qualche movimento di mercato in quella direzione. […]
Come si dice abbia affermato Keynes, “markets can remain irrational a lot longer than you and I can remain solvent” (i mercati possono rimanere irrazionali molto più a lungo di quanto io e lei possiamo rimanere solventi).
In secondo luogo, alcuni tra i nuovi strumenti derivati – in particolare i credit default swaps – hanno, come è stato osservato da alcuni importanti operatori, la natura di “armi di distruzione di massa”, in quanto strumenti straordinariamente efficaci per la speculazione al ribasso (rinviamo su questo punto a Kregel, 2011). In termini drasticamente semplificati, il punto è che i credit default swaps vengono correntemente utilizzati non solo e non tanto per operazioni di copertura da rischi, ma anche da parte di chi intende speculare sulle prospettive di peggioramento della situazione. Infatti, assicurandosi contro il default, o anche solo contro la caduta di prezzo, di un titolo che non si possiede (ovvero acquistando “naked” CDS) si può speculare al ribasso con maggiore efficacia (e generalmente maggiore leva) di quanto sia possibile, ad esempio, con vendite allo scoperto del titolo. […]
Si osservi che per trarre profitto dai CDS non è necessario che il prestito obbligazionario vada in default; è sufficiente che il rischio di default cresca, provocando un aumento di prezzo dei CDS che a questo punto possono essere ceduti.[…]
Tuttavia, nel clima liberistico di imperante “lasciar fare, lasciar passare” questi aspetti sembravano non preoccupare nessuno: tuttora la questione non è stata affrontata con la necessaria determinazione, e i CDS sono tra gli
strumenti più utilizzati dalla speculazione al ribasso sui titoli del debito pubblico greci, spagnoli, italiani.
Per una rapida infarinatura sui CDS, clicca qui, n.d.r.
In terzo luogo, le operazioni speculative per loro natura sono scommesse bilaterali: se qualcuno guadagna, qualcun altro deve perdere. Se in caso di fallimento subentra la mano pubblica, in una forma o nell’altra, abbiamo una classica situazione di profitti privati e perdite pubbliche. […]
Crisi del debito pubblico o attacco all’Euro?
Dove si mostra il fondamentale ruolo della speculazione dietro all’esplodere della crisi del debito pubblico in Europa.
Il persistere di condizioni di fragilità finanziaria è stato dimostrato ad abundantiam dagli eventi degli ultimi mesi, con la cosiddetta crisi del debito pubblico di alcuni paesi dell’euro. Come si accennava sopra, al di là dell’innesco, la natura dell’esplosivo è rimasta la stessa: cioè gli ampi margini di manovra disponibili per la speculazione finanziaria.
Nel nostro caso basta seguire l’andamento degli eventi. Le difficoltà greche erano note da qualche tempo, almeno da quando era emerso che il governo di destra aveva occultato una parte cospicua del disavanzo
pubblico, con l’aiuto di trucchi contabili suggeriti dai suoi advisor internazionali (tra cui uno dei maggiori istituti di credito statunitensi coinvolti nella speculazione). Improvvisamente, lo spread sui titoli del
debito pubblico greco rispetto ai Bund tedeschi esplode […]; il caso greco è ad un tempo separato e virtualmente indipendente dalla crisi finanziaria in corso (sebbene i problemi di insolvenza siano ovviamente più gravi nei periodi di maggiore instabilità finanziaria) ed è esemplare del groviglio di conflitti d’interesse e azzardo morale che investe le principali banche, agenzie di rating e società finanziarie europee e non. Non vi sarebbe dunque ragione di temere un contagio verso gli altri paesi con alto debito pubblico, quanto piuttosto verso i sistemi finanziari (in primis bancari) creditori del governo e delle banche greche (D’Ippoliti, 2011). Invece, com’è noto, dopo la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda […] è finita sotto tiro anche l’Italia.
Come mostrato nella figura 3, anche in Italia lo spread con i titoli di stato tedeschi rimane più o meno stabile nella prima metà del 2011 per accelerare improvvisamente e in modo apparentemente inspiegabile tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. Cosa è cambiato nel nostro paese, da maggio a luglio? La situazione reale dell’economia italiana era la stessa
di prima, mentre per quel che riguarda il deficit pubblico le cose sembrano semmai, sia pur lievemente, migliorate. […] La manovra finanziaria predisposta dal governo sembrava apprezzata in sede europea e si distingueva per rispettare i
target imposti dal “Patto Euro Plus” senza essere eccessivamente depressiva per l’economia reale nell’immediato.
Figura 3 – Spread dei titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi nel 2011
Come spiegare dunque che nulla di simile a quanto accaduto ai nostri tassi d’interesse si sia verificato per
paesi in condizioni peggiori se non, in misura molto inferiore, in Spagna?
Dobbiamo tenere conto di tre circostanze, tutte e tre rilevanti, che tuttavia hanno a nostro parere peso diverso. In primo luogo, è ovvio che – come si è appena visto – la situazione del debito sovrano presenta elementi indubbi di fragilità: le sole dimensioni di quello italiano rappresentano un unicum che inevitabilmente attira periodicamente lo
scetticismo di commentatori e a volte operatori. Inoltre, come nota De Grauwe (2011), i paesi fuori dall’area dell’euro (tra cui i citati Regno Unito e Polonia, secondo alcuni criteri in condizioni peggiori dell’Italia) hanno ancora la sovranità monetaria e quindi sono sempre solvibili per definizione, potendo finanziare virtualmente qualsiasi livello di debito
pubblico con inflazione e deprezzamento della valuta.
[…]
In secondo luogo, la crisi finanziaria del 2007-2008, innescata dal debito privato, ha indotto una riallocazione dei portafogli delle istituzioni finanziarie in direzione del debito sovrano; tuttavia, nella nuova situazione hanno acquistato crescente importanza le distinzioni di rischi e rendimenti all’interno della categoria dei debiti sovrani. Gli investitori
istituzionali erano probabilmente sovra-esposti verso il debito italiano, anche a causa della sua maggiore liquidità e redditività rispetto ad altri titoli dell’area euro […]
In terzo luogo – ed è questo l’elemento che a nostro parere assume maggiore rilievo nello spiegare perché la speculazione si concentra ora sull’Italia piuttosto che sulla Spagna (pur senza voler trascurare la diversa stima dell’opinione internazionale per i governi dei due paesi) – la scommessa ora riguarda la capacità di tenuta dell’euro come valuta di
un’ampia area geo-politica dotata di sufficiente coesione interna. Il punto è che la speculazione finanziaria ha scelto gli spread sul debito pubblico dei paesi dell’area dell’euro, e non gli altri, come obiettivo operativo intermedio per una scommessa di carattere più generale, relativa alla solidità dell’euro in quanto moneta sovranazionale […]
Naturalmente l’obiettivo intermedio, di per sé, è già fonte di guadagni speculativi; ma il contagio tra la Grecia e gli altri paesi fa assumere alle operazioni speculative una natura più ampia. La cosa poteva essere facilmente prevista: se non sono più possibili le speculazioni sui cambi tra le valute dei vari paesi dell’Unione Europea, assumendo che tali paesi mantengano un andamento non convergente nel tempo, le tensioni sono destinate a scaricarsi sulla valutazione di solidità
dei titoli del debito pubblico dei vari paesi, quindi sugli spread.
Come si è accennato sopra, la speculazione si è mossa sulla base di considerazioni obiettive. Tra queste però rientra anche il fatto che la sua stessa azione modifica la situazione di base, rendendo più probabile il suo successo. Il punto è che la sostenibilità del debito pubblico, sia secondo il criterio statico sia secondo quello dinamico, è molto sensibile al livello
dei tassi d’interesse; in assenza di una gestione centralizzata del debito pubblico dell’area dell’euro, tali tassi sono differenziati paese per paese, quindi più facilmente influenzati dalla manovra speculativa. Il rialzo
degli spread ha quindi un effetto negativo sulla sostenibilità del debito, in misura potenzialmente assai rilevante, specie per paesi che hanno uno stock di debito pari o superiore al proprio PIL.
Di fronte all’immediatezza del problema della crisi del debito sovrano e alle crescenti dimensioni che andava assumendo, la risposta di politica economica si è concentrata su di esso, mentre per quel che riguarda il problema di fondo delle regole istituzionali della politica monetaria europea non è stato compiuto alcun significativo passo in
avanti, a parte l’istituzione dello EFSF, sui cui compiti tuttavia la discussione è ancora aperta. Le proposte avanzate da più parti di emissioni obbligazionarie europee hanno ricevuto una doccia fredda dal direttorio Merkel-Sarkozy, che hanno riproposto l’adesione fideistica al ripristino di una strettissima disciplina di bilancio.
I rischi di una frammentazione dell’area dell’euro non possono essere considerati trascurabili. Molti sembrano vederla con favore, ignorando sia gli effetti destabilizzanti che essa avrebbe sui bilanci bancari, sia la corsa alle svalutazioni competitive che ne deriverebbe, con le conseguenze negative già sperimentate negli anni Trenta del
Novecento, sia soprattutto il fatto che una sua frammentazione in un’area del marco e un’area mediterranea sarebbe esiziale per un paese come l’Italia, riaprendo le spinte alla secessione di un nord “bavarese” da un
sud mediterraneo: un problema che vale anche per varie altre aree d’Europa, in particolare Spagna e Belgio, dove potrebbero riaprirsi aspre tensioni nazionalistiche oggi sopite dal processo di unificazione europea.
Come notava già Keynes riguardo al sistema di Bretton Woods, un sistema a cambi fissi (e a maggior ragione un’unione monetaria) che lasci tutto il peso della correzione degli squilibri macroeconomici sui soli paesi in deficit è prono alla deflazione e difficilmente genera piena occupazione, sia nei paesi in surplus sia in quelli in deficit. Dunque, la
strategia di uscita dalla crisi dell’euro dovrebbe consistere nel rilancio della crescita economica, con strumenti di politica attiva a livello continentale (iniziando dai cosiddetti eurobond e dalla realizzazione di progetti europei di infrastrutture, oltre che da una politica monetaria che persegua, come la Fed, sia la stabilità dei prezzi sia la piena occupazione
e non il primo obiettivo soltanto, come invece prevede l’attuale statuto della BCE). Dovrebbe invece essere limitata allo stretto indispensabile l’imposizione di misure di austerità, rinunciando all’imposizione di rigide tabelle di marcia per la riduzione del debito in proporzione del PIL. Tali misure, peraltro, difficilmente potranno garantire la solvibilità di alcuni paesi (come la Grecia) o la sostenibilità del debito di altri. […]
Gli stessi paesi in surplus di bilancia dei pagamenti (Germania, ma anche Paesi Bassi, ecc.), che rifiutano di accettare politiche fiscali o monetarie espansive, hanno un forte interesse ad una ripresa della crescita nei paesi “mediterranei”. Infatti, nonostante i diversi pacchetti di salvataggio a Grecia, Irlanda e Portogallo (che hanno spostato parte del
rischio d’insolvenza di questi creditori sulle finanze pubbliche europee), i loro sistemi bancari sono ancora, a molti mesi dallo scoppio della crisi, fortemente esposti verso i cosiddetti PIIGS […]
La deriva italiana
Dove si mostra come la crisi italiana inizia molto prima di quella globale, segnata da una perdita di competitività dovuta all’aumento dell’inflazione e da una sostanziale stagnazione della produttività.
Veniamo così all’Italia. Da noi, il sistema bancario si è trovato in qualche difficoltà nel momento più drammatico della crisi finanziaria, ma a differenza di molti paesi europei non è andato incontro a una vera crisi.
Come nota Ciocca (2010): “[l]a tradizione dei controlli della Banca d’Italia, la prudenza degli intermediari, la ristrutturazione recente dell’industria finanziaria, il più basso indebitamento dei privati, la stessa
minore vivacità dell’economia hanno concorso al risultato, altamente positivo, di sottrarre – sinora – l’Italia alla instabilità finanziaria internazionale” […]
Il punto è che l’Italia da anni attraversava già una crisi strisciante, fatta di ristagno e di inflazione
(contenuta ma pur sempre maggiore di quella dei nostri partner commerciali), con una progressiva perdita di terreno in termini di competitività e di reddito pro-capite rispetto agli altri paesi europei.
Com’è noto, l’Italia si caratterizza per tassi di attività e di occupazione più bassi sia della media europea sia di quella
dei paesi dell’area dell’euro. A partire dalla fine degli anni ‘90, una serie di riforme tese a rendere più flessibile l’ingresso e l’uscita dal lavoro, così come a rendere più decentralizzata la contrattazione salariale, sembrano
avere effettivamente avuto qualche successo in termini occupazionali […]
Queste riforme hanno però comportato un cambiamento del modello di sviluppo, verso un sentiero di bassa crescita della produttività, bassi investimenti e alto utilizzo della forza lavoro […]
Così, la produttività media del lavoro, storicamente superiore alla media dei paesi dell’EU-27, sebbene inferiore a quella dell’area euro, ha ristagnato rimanendo all’incirca costante in tutto il periodo dalla seconda metà degli anni ‘90 fino a subito prima della crisi (2007), mentre nello stesso periodo cresceva la produttività sia dei paesi che adottano l’euro sia degli altri paesi europei.
In aggiunta, e in parte in conseguenza di questo fenomeno, nello stesso periodo la crescita dei prezzi è stata nel nostro paese superiore a quella media europea, come mostrato nel riquadro c) della figura 7. La differenza, per quanto limitata, cumulandosi nel tempo ha generato un peggioramento dei problemi di competitività che hanno iniziato ad
affliggere l’Italia […]
In conseguenza di questo prolungato periodo di (bassa) crescita occupazionale senza crescita della produttività e con inflazione superiore alla media, in realtà l’Italia era entrata in recessione già prima della crisi
mondiale. […]
Conclusione
Dove si mostra come le proposte di modifiche costituzionale per il pareggio di bilancio e liberalizzazioni del mercato del lavoro siano inutili nella migliore delle ipotesi.
[…] finché in particolare non si provvederà a livello internazionale ad una riforma incisiva della finanza (che limiti la
speculazione, abolisca alcuni strumenti derivati e sposti su mercati regolamentati e vigilati lo scambio di molti altri strumenti oggi scambiati over-the-counter) e finché non si porrà mano alla struttura costituzionale
e le regole procedurali dell’Unione Europea, i vincoli per la politica economica nazionale appaiono insuperabili.
Iniziamo con le due proposte di modifica costituzionale, intese a imporre un vincolo di pareggio del bilancio pubblico e a indirizzare il paese verso una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro. In entrambi i casi, e soprattutto nel secondo, non si tratta certo di misure che possano contribuire al riequilibrio, nell’immediato, dei nostri conti
pubblici; possono piuttosto essere considerate misure “di facciata”, dirette semmai a compensare una qualche debolezza negli interventi diretti su entrate e spese pubbliche. In questo senso, misure di revisione costituzionale potrebbero avere una utilità concreta solo nella misura in cui contribuissero a modificare in senso positivo le valutazioni degli
operatori internazionali, in particolare delle società di rating, sulla capacità delle autorità politiche italiane di sciogliere i nodi strutturali che appesantiscono i nostri conti pubblici e ostacolano lo sviluppo economico; proprio in questo senso, tuttavia, occorre temere il confuso e dispersivo dibattito politico cui inevitabilmente si dà avvio con
l’annuncio di intenzioni vaghe e non di opzioni ben definite fin nei dettagli e sostenute da un largo consenso.
Per quanto riguarda la “liberalizzazione” del mercato del lavoro ci limitiamo a sottolineare tre aspetti. Primo, non si tratta di una delle questioni più urgenti, in una fase in cui il problema della crescita riguarda soprattutto il ristagno della domanda aggregata e in cui al centro dell’attenzione è il tema dei conti pubblici. Secondo, la flessibilità di cui
il nostro paese avrebbe bisogno riguarda soprattutto l’introduzione di nuove tecnologie, non la riduzione del potere contrattuale dei sindacati, come mostra anche l’andamento recente della distribuzione del reddito richiamata sopra. Terzo, nel momento in cui il costo concreto della manovra ricade soprattutto sui lavoratori dipendenti (sia tramite le tasse, sia tramite le modifiche alla normativa pensionistica) appare decisamente inopportuno introdurre un ulteriore elemento di scontro con misure dirette a limitare l’efficacia dello Statuto dei lavoratori.
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