[Mondoperaio in Labouratorio] “Turbanti, stellette e democrazia” Intervista a Gianni De Michelis
martedì 30 agosto 2011 | Scritto da Redazione - 1.164 letture |
Si era in Aprile quando su Mondoperaio usciva questa interessante intervista all’ex ministro degli esteri dai capelli ingelatinati e una visione politica mai più rintracciata tra i suoi successori alla Farnesina. Ci sembra un buon modo per commentare la caduta del regime libico.
Intervista a Gianni De Michelis di Alberto Benzoni, Luciano Cafagna e Luigi Capogrossi
Gli avvenimenti del Nord Africa irrompono nel dibattito pubblico con una radicalità che nessuno aveva previsto. Perciò abbiamo chiesto ai nostri tre collaboratori di discutere con Gianni De Michelis degli scenari che si aprono e delle iniziative politiche che si rendono necessarie.
Siamo venuti a parlare con te soprattutto stimolati dai recenti eventi intervenuti e in corso nell’Africa mediterranea e nel mondo arabo. Ma prima di entrare più specificamente su tali aspetti, vorremmo partire, se sei d’accordo, dal grande dibattito in corso in questi anni – anche se di carattere accademico più che politico – intorno al destino della democrazia liberale nel mondo. Vi sono da un lato gli ottimisti convinti della naturale capacità espansiva e pedagogica del modello, dall’altra i sempre più numerosi pessimisti che invece guardano all’affermarsi di modelli ‘sovranisti’, di cui la Cina appare l’esempio più evidente, in concorrenza vittoriosa con un Occidente in fase di declino. Tu come ti schieri in questo dibattito?
Io mi ritengo senz’altro un ottimista, ma per ragioni che non hanno niente a che fare con i modelli che avete richiamato. Penso infatti che l’elemento decisivo in quello che sta accadendo dall’altra parte del Mediterraneo (e che potrà accadere, seppure in forme diverse, altrove) sia un fenomeno affatto nuovo. Mi riferisco alla forza trainante – in termini di diffusione, di informazione e di formazione – di quella che definirei la ‘rete’: un nuovo tipo di circolazione e comunicazione. Stiamo assistendo – e sto pesando con attenzione le parole – ad un passaggio veramente epocale.
In che senso?
Qui vorrei partire dai numeri, anche perché rimango convinto che al di là di una certa soglia, la quantità si trasforma in qualità. Penso all’Europa degli inizi del ‘900 e al mondo di oggi. Allora le persone erano abilitate in qualche modo a sentirsi parte di un’autentica cittadinanza erano una minoranza veramente esigua. Tanto per fare un esempio, le donne erano in tutto il mondo naturaliter escluse dalla partecipazione al voto (solo in Finlandia il voto alle donne è stato introdotto prima dell’anno 1900). Per tacere il peso dei fattori di censo, acculturazione e alfabetizzazione come fattori di esclusione della maggior parte della popolazione europea. Per non dire poi della realtà al di fuori dell’Europa e dei pochi paesi sviluppati a partire dagli USA: lì quasi tutta la popolazione era esclusa da ogni forma di partecipazione, oltre a vivere in condizioni di profonda miseria e assoluta ignoranza, sovente al di sotto del livello di sussistenza.
Oggi invece stiamo assistendo a un fenomeno grandioso e sempre più accelerato – ai limiti di una crescita esponenziale – di inclusione di un crescente numero di individui. Penso non solo alle centinaia di milioni di persone che vanno a riempire le fila delle cosiddette ‘classi medie’, dalla Cina, all’India all’America Latina, ed ora alla stessa Africa; ma anche alla diffusione dei nuovi strumenti elettronici che consente al pescatore indiano o al contadino brasiliano di accedere a tutte le informazioni che più direttamente lo interessano. Com’è ovvio, poi, l’economia e la tecnologia si trasforma in opportunità e domande politiche. E qui non sono affatto sicuro che il ‘sovranismo’ sia la soluzione del futuro: quello che so è che la sovranità dei cittadini tende a diventare un’esigenza sempre più forte e insopprimibile.
Bisogna anche tener conto che, al di là dei confini del vecchio occidente, abbiamo quasi sempre a che fare con una composizione demografica delle popolazioni con grandissima prevalenza di giovani, più propensi a contestare il presente che a temere il futuro e più capaci di accedere a quelle informazioni che rendono ciò possibile.
Tali fenomeni sono in gran parte sotterranei e, a differenza del passato, sostanzialmente privi di connotati ideologici, siano essi occidentali o terzomondisti. Anche per questo si tratta di processi assai difficilmente prevedibili e certamente non classificabili secondo i nostri schemi tradizionali.
Cosa conosciamo di queste trasformazioni cui accenni e di quali analisi disponiamo?
Conosciamo pochissimo e disponiamo di poche informazioni di prima mano: si è trattato di una colossale distrazione – chiamiamola così – occidentale, anche legata ad un larvato ma durevole complesso di superiorità, confermato dall’11 settembre, ma ben più antico (“dall’Islam non può venire nulla di buono”). E di tale cecità abbiamo testimonianze impressionanti: chi ha considerato nei suoi termini reali un fenomeno di rilevanza mondiale, atto a plasmare coscienze e orientare intelligenze assai più della teocrazia iraniana o di Al Qaeda? Mi riferisco ad quel sistema d’informazione di grande rilievo che fa capo alla rete di Al Iazeera. Che questa televisione fornisca servizi e informazione di prim’ordine e non solo per il mondo arabo è ormai assodato. Molti di noi si servono abitualmente del suo canale in inglese per avere informazioni di prima mano altrimenti irraggiungibili. Ebbene, chi ha riflettuto seriamente su tutto ciò? Sul fatto anzitutto che un’espressione di quella cultura e di quel mondo sia in grado di parlare e parlare anche a noi, dirci cose su cui altrimenti saremmo sordi e disinformati. E poi – e soprattutto – che fenomeni del genere non nascono dal nulla e non possono che essere alimentati da un tessuto, culturale e sociale, ben più articolato e potenzialmente ricco rispetto alle terribili semplificazioni con cui noi occidentali – esplicitamente i più radicali, tacitamente i più – in genere vediamo il mondo arabo e, in genere, l’Islam.
Ti sei avvicinato così al nostro tema: quello delle rivoluzioni arabe e mediorientali.
Direi proprio di sì: mi ha colpito in quello che vedo sugli schermi televisivi la totale assenza di slogan e di bandiere, tra l’altro neppure quelle antioccidentali o antisraeliane, e il fatto che oggetto della contestazione siano i regimi più diversi, da quelli definiti moderati e filo-occidentali a quello iraniano, da quelli al potere nei Paesi ricchi a quelli al potere nei Paesi poveri. Evidentemente ad essere contestata non è la posizione internazionale o la ideologia di questo o quel regime, ma piuttosto la sua opacità e la sua totale sordità ai bisogni della gente. Insomma da tutto ciò discende la difficoltà di interpretare con ragionevole plausibilità i possibili sviluppi futuri. Certo, per il presente, e come spiegazione di ciò che sta avvenendo apparentemente così all’improvviso, c’è la totale insoddisfazione che un numero crescente di quegli individui di cui parlavamo prima, giunti a un livello minimo di consapevolezza del loro destino e della loro condizione, prova per dei regimi la cui logica appare sempre più, come del resto è, di pura conservazione di un potere esclusivo, con il corollario di arbitrio e corruzione che a ciò è indissolubilmente legato. E qui torno a quanto dicevo a proposito dell’aspirazione di un crescente numero di settori di quelle società ad acquisire una maggiore dignità di ‘cittadini’.
Ma in che relazione si pone questa tua prospettiva con il generalizzato – forse un po’ semplicistico – richiamo alla ‘democrazia’ come la soluzione dei problemi politici e di crescita di quelle società?
Il punto è che dovremmo avere imparato che non è sufficiente l’esercizio come che sia del suffragio elettorale perché sia in funzione il complesso e delicato equilibrio politico-istituzionale che corrisponde ad una reale democrazia. Anche in Europa è stato lungo il percorso, dalle prime rivoluzioni volte ad affermare uno Stato di diritto ed una rule of Law, ai regimi liberali dell’Ottocento ed al suffragio universale del secolo scorso.
Sotto questo profilo ciò che si dovrà cercare di favorire, da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, è la maturazione delle condizioni istituzionali e delle garanzie formali volte ad assicurare la dignità e la tutela giuridica degli individui rispetto allo strapotere ed all’abuso di un potere politico tendenzialmente assoluto e sottratto ai vincoli della rule of Law.
Come sai i regimi arabi, dall’Atlantico sino al Golfo Persico, si sono presentati all’Occidente – ottenendone puntualmente i favori – come baluardi rispetto al pericolo del fondamentalismo islamico. Pericolo non a caso riproposto con angoscia, in questo frangente, da molti opinion makers e politici, italiani, ma non solo.
Personalmente ritengo questa alternativa – cioè l’alternativa tra le mostrine e i turbanti – una forzatura pericolosa e fuorviante. E questo per una serie di motivi che vorrei esporre con un minimo di chiarezza. Il primo attiene alla storia, e cioè al ciclo di eventi che hanno caratterizzato i paesi nordafricani nell’arco delle crisi da sessant’anni a questa parte. Ricordiamo che questi paesi hanno vissuto tutti – chiusa con Suez l’era coloniale – un periodo di rivolgimenti e di violenze con l’emergere tumultuoso e reciprocamente distruttivo delle più diverse ideologie: nasserismo, panarabismo, baathismo, mito rivoluzionario palestinese, sino alla proposta dell’Islam come soluzione. Epperò con la fine di quella che chiamerei ‘l’epoca dei torbidi’ l’appeal di tutte queste ideologie è progressivamente scemato; e attenzione, includo tra queste anche quella dell’Islam politico fondamentalista. In questo senso i regimi militari, senza aver risolto nessuno dei problemi che le varie ideologie pretendevano di affrontare, sono stati oggettivamente un superamento delle medesime, garantendo una continuità e una stabilità nel potere senza precedenti nell’area.
Quindi, secondo te, l’Islam, malgrado tanti timori, non è più un fattore politico rilevante?
Non intendo affatto dire questo. Quello che penso è che è una religione che rappresenta oggi la maggioranza relativa della popolazione mondiale. Essa si articola in diversi filoni ed è percorsa da tensioni e da contrasti che vanno seguiti con il massimo interesse, senza chiuderci nei nostri timori. Non parlo soltanto delle ovvie differenze tra Islam europeo, mediorientale e asiatico, ma anche e soprattutto del dibattito insieme dottrinale e politico che mi pare oggi particolarmente intenso. In linea generale (verrò poi alle distinzioni tra sunniti e sciiti) mi paiono tramontate le alternative drammatiche e distruttive tra gestione totalitaria del potere e distruzione del medesimo in vista del ritorno a non si sa bene quale purezza originaria. All’ordine del giorno, oggi, in queste società in trasformazione, si pone per ogni soggetto politico – componenti islamiche comprese – la scelta tra l’appoggio al vecchio ordine in cambio di specifici vantaggi o l’adesione senza riserve al nuovo corso politico e ai nuovi spazi di democrazia, giocando in questi le proprie carte.
E’ molto importante, sotto questo profilo e per comprendere bene ciò che effettivamente si sta muovendo in questo mondo a noi così vicino, che tra i vari modelli di islamismo politico possibile – la Turchia di Erdogan, le monarchie del Golfo e l’Iran di Khamenei – il primo sembra di godere di adesioni maggioritarie e crescenti. E per concludere questo punto, vorrei aggiungere una brevissima riflessione sulla questione sunniti-sciiti. Personalmente ritengo che questi ultimi, anche ma non solo perché minoritari, rappresentino almeno potenzialmente l’elemento di maggiore rinnovamento. Pochi ricordano, in tale contesto, che i maggiori e più coraggiosi oppositori della dottrina khomeinista di un potere assoluto perché derivato direttamente da Dio sono i teologi di Qom. Ma soprattutto vorrei sottolineare la profonda diversità dell’orientamento degli sciiti iracheni, con l’autorità che a loro deriva dall’essere associati ai luoghi santi di questo orientamento religioso: Najaf e Kerbala, sedi della massima autorità sciita, con il grande aiatollah Sistani. E’ qui che ha sede il nucleo centrale di tale posizione: del resto non si deve dimenticare che, nel momento decisivo della vita del nuovo Iraq, fu proprio Sistani a sostenere che la partecipazione senza riserve al gioco democratico era per gli sciiti iracheni non solo un diritto, ma un dovere.
Uno degli effetti positivi della guerra in Iraq?
Ebbene sì. E qui ricordo, a mio rischio, che sostenni a suo tempo le ragioni dell’intervento in Iraq, pur ritenendo tuttora piena di errori la successiva gestione politica del dopoguerra, a partire dalla liquidazione frettolosa – tornerò su quest’argomento – di tutte le strutture del vecchio regime. Questo per dire – e qui mi permetto di assumere una posizione diversa da quella di Obama – che non sempre le guerre giuste, avallate da una deliberazione dell’ONU, sono necessariamente intelligenti. Così in Afghanistan non siamo riusciti a costruire nulla, anche per la pretesa assurda di imporre modelli occidentali altamente elaborati ad un paese costruito su regole ed equilibri del tutto diversi. Mentre in Iraq qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta, anche perché il paese era dotato, prima del disastro finale di Saddam Hussein, di strutture moderne e di una classe media abbastanza strutturata.
Vorremmo, a questo punto, approfondire insieme a te un argomento che hai più volte richiamato: quello della imprevedibilità. La nostra impressione è che questo elemento non riguardi solo il passato: il fatto cioè che la rivoluzione mediorientale non fosse stata anticipata da nessuno, ma proprio da nessuno, neanche per il futuro. Nel senso che è molto difficile pensare, come invece avvenne per i paesi dell’Est, a sviluppi lineari del fenomeno. E che per altro verso, rifletta anche, come dire, una sorta d’incapacità di lettura degli avvenimenti da parte dell’Occidente.
E’ esattamente così, ed è certamente vero che nel nostro caso l’incertezza dei processi sia in qualche modo accentuata e resa potenzialmente drammatica dalla nostra difficoltà profonda a leggerli e orientarli, almeno nella misura in cui ciò è possibile. I ragazzi che manifestano per le strade di Tunisi, di Bengasi o del Cairo sanno certamente di avere a che fare con un potere capace di ogni azione pur di perpetuarsi. E’ difficile pensare nel nostro caso a quella sorta di ‘compromesso storico’ tra governanti e governati che portò al dissolvimento pacifico dei regimi d’oltrecortina. Assai più facile purtroppo ipotizzare un alternarsi di concessioni formali e repressioni reali. Aggiungo poi che in questo scontro i protagonisti del cambiamento non hanno modelli da adottare, anche perché, incidentalmente, gli schemi occidentalisti non sono utilizzabili. Non tutto insomma si risolve col semplice ricorso alle elezioni e con le maggioranze elettorali. Qui si tratta di costruire una strada che, evitando scontri frontali, faccia nascere passo passo le regole e gli istituti di uno Stato di diritto, e cioè di uno Stato in cui i governanti non possano disporre a loro arbitrio della sorte dei governati.
Ecco, questo ci sembra importante: del resto, come tu stesso accennavi poco fa, anche la democrazia liberale in Occidente è il risultato di un lungo percorso e il frutto di una serie di sperimentazioni e di errori. Sembra quasi che, quando ci si occupi della storia altrui ci si dimentichi in parte almeno della nostra.
Sono assolutamente d’accordo: in questo americani ed europei sembra si disinteressino totalmente delle dimensione storica nell’approccio ai problemi del presente. Manchiamo nelle nostre considerazioni totalmente di quello che potremmo definire lo “spessore storico”. Questo è un grande errore, giacché ci priva di alcuni importanti riferimenti per comprendere la complessa stratificazione di quella realtà con cui vorremmo e dovremmo confrontarci.
E dunque nessuna esportazione della democrazia?
D’accordo, ma attenzione a non fare di questa frase un alibi per il nostro disimpegno. Rimango infatti assolutamente convinto che senza una presenza a più livelli degli Stati Uniti e dell’Europa il futuro della rivoluzione araba rischia di essere seriamente compromesso. E qui occorre dirlo, le premesse – insomma ciò che emerge dai nostri comportamenti recenti – non sono affatto positive. Ma qui risalta anzitutto una profonda diversità tra Stati Uniti ed Europa. I primi, almeno con il discorso di Obama all’Università del Cairo, hanno intelligentemente promosso, insieme, la causa della democrazia e quella del dialogo con l’Islam. L’Europa, invece, ha continuato a baloccarsi con l’alternativa ‘regimi militari-avvento dei fondamentalisti’, così da vedere oggi dietro ogni cespuglio gli uomini di Al Qaeda e dietro ogni sbarco il flusso di orde distruttrici. Reazioni queste espresse con particolare vigore nel nostro paese, ma che sono presenti, eccome, anche nel resto dell’Europa.
Naturalmente queste reazioni, diciamo, rozze e sfuocate, corrispondono a una lettura sciatta e sommaria degli avvenimenti, e alimentano, in un circuito perverso, una sostanziale rinuncia alla politica. E qui, prima di ragionare insieme a voi sulle radici oggettive della debolezza europea, vorrei esemplificarne alcuni aspetti concreti. Richiamo anzitutto due punti che evidenziano in modo esemplare il nostro fallimento: la questione israeliano-palestinese e la della politica Euro-Mediterranea.
Sul primo punto mi limito a richiamare una verità evidente: e cioè il fatto che, senza un concorso esterno, e più in generale senza una più ampia cornice internazionale, il sempre evocato processo di pace non riesce in alcun modo a decollare. Occorrerebbe dunque che la collettività internazionale contribuisse a elaborare i contenuti dell’accordo e soprattutto ad assicurare ai contraenti tutte le garanzie internazionali di cui hanno bisogno. Personalmente ritengo che i processi democratici in atto in queste ore nei paesi arabi avvicinino questa prospettiva: e non tanto per il così sbandierato principio che i paesi democratici tendono a risolvere i loro contrasti pacificamente. Ma piuttosto perché lo stesso Israele è costretto a uscire dal totale immobilismo che ne caratterizza da tempo la politica. Va segnalato che al silenzio prudente di Netanyhau – affatto coerente con la sua tradizionale politica del rinvio – si sia contrapposta la visione sostanzialmente ottimistica espressa da Peres. Ma soprattutto perché i processi in atto rafforzeranno la linea di Obama tendente a porre la questione della pace al centro del futuro dialogo tra America e mondo arabo.
Non dimentichiamoci poi che il totale immobilismo su questo punto è stato uno degli elementi che hanno portato alla progressiva perdita di ogni spinta propulsiva al dialogo tra le due sponde del Mediterraneo.
Uno degli elementi, ma non il solo?
Non il solo, certo. Diciamo però che l’accantonamento sostanziale della questione palestinese ha contribuito alla freddezza araba sul dialogo mediterraneo. Sul problema della pace ,infatti, l’Unione Europea sembra confinata, con il suo tacito consenso, nella veste di ufficiale pagatore, e ciò non è sfuggito a nessuno. In linea generale però il dialogo s’è arenato per tre sostanziali ragioni, peraltro tra loro strettamente connesse. La prima attiene al fatto che i paesi più direttamente interessati – in primo luogo Francia e Italia – o hanno gestito la questione in modo declamatorio e strumentale (Francia), o se ne sono sostanzialmente disinteressati (Italia), seguendo in quest’ultimo caso una linea di complessivo disimpegno in atto ormai da diversi anni. C’è da considerare in secondo luogo l’irresistibile ridimensionamento della dimensione mediterranea nel processo di costruzione dell’Europa. Non poteva che conseguirne infine un dialogo progressivamente incanalato – anzi arenato – in una serie di operazioni tra loro sostanzialmente sconnesse in un contesto in cui il dialogo medesimo è divenuto fatalmente un esercizio fine a se stesso.
Vorrei allora dedicare la parte conclusiva del nostro incontro all’approfondimento di questi temi. In pratica alle ragioni della perdita dell’orizzonte mediterraneo, o per dirla in altro modo, con l’orientamento dell’Europa lungo un’asse che io ho chiamato ‘euro-baltico’ e che ha al suo centro i rapporti tra la Germania e l’area che la circonda ad Est e a Nord-est. Processo simboleggiato dal fatto che, dopo meno di un anno dalla caduta del Muro di Berlino, la Germania Est è diventata sia pure per tre giorni il tredicesimo stato dell’UE e il primo del cosiddetto “allargamento”. Solo riflettendo su ciò possiamo porci concretamente il problema di come recuperare questa dimensione mediterranea.
Ma allora tu pensi ad una scelta deliberata e formalizzata dell’UE in tal senso?
Certamente no: aggiungo subito però che nell’orientare l’Europa in questa direzione giocano una serie di fattori, eventi, comportamenti specifici, ragioni strutturali che spingono tutti nella stessa direzione. Per discutere in modo adeguato occorrerebbero naturalmente dieci interviste come questa. Mi limiterò pertanto ad elencare e descrivere tali fattori in modo affatto sommario.
Comincerò col dato forse più ovvio, al quale del resto ho già accennato. Dal fatto cioè che i potenziali avvocati della, causa mediterranea, sono, diciamo così, impari al loro compito. Lo è in primo luogo il nostro paese, per una serie di ragioni che è inutile ricordare e che attengono essenzialmente alla sua storia interna di quest’ultimo ventennio e si traducono nella duplice direzione della sua perdita d’influenza su scala europea e del suo crescente disinteresse per qualsiasi tipo di progettualità internazionale (facendo salvo il piccolo cabotaggio, talvolta fruttuoso, ma sempre irrilevante). Lo è la Francia, volta sempre più a salvaguardare la sua grandeur, proiettandola in ogni direzione, tanto da non riuscire veramente efficace in nessuna. Lo è la Spagna, per la quale l’ altra sponda rappresenta più un problema che una risorsa e che, anche per questo, guarda al di là dell’Atlantico, più che del Mediterraneo. Si aggiunga poi a tutto ciò la particolare crisi economica che ha investito la Spagna, che ne ha ulteriormente indebolito la posizione.
Ci sono poi gli eventi dei primi anni ’90: e parlo di Maastricht e della guerra in Jugoslavia. Non è necessario riproporre qui il dibattito che accompagnò allora la firma del trattato e le modalità con cui si addivenne ad essa. Mi limito semplicemente a dire che l’avere inserito nei cosiddetti parametri, cosa che soprattutto grazie a Carli eravamo riusciti ad evitare a Maastricht, il debito pubblico pregresso, come è successo al momento dell’entrata della Lira nell’Euro, ha posto particolarmente il nostro paese in una situazione di oggettiva e permanente inferiorità, non solo per quanto riguarda i margini della sua politica economica, ma anche nel più generale suo rapporto con l’Europa e in particolare con la Germania.
Per quanto riguarda poi le vicende che portarono alla deflagrazione dell’ex Jugoslavia, non è il caso di riaprire qui antiche polemiche, magari per piangere su occasioni perdute che forse non c’erano. Mi limito a fotografare la situazione veramente illuminante che scaturì dal conflitto: una situazione in cui, conformemente alla visione che la Germania aveva dell’Europa, i confini a Sud dell’Unione coincidono con la Slovenia, mentre ne rimane, e ne rimarrà fuori per chissà quanto tempo, tutto il resto dei Balcani Occidentali, salvo forse (e auspicabilmente) la Croazia.
E vengo adesso alle scelte di fondo; cioè a quelle che riguardano l’assetto interno e i confini esterni: tradotto in ‘politichese’ europeo, le questioni dell’approfondimento e dell’allargamento. Qui l’errore compiuto mi sembra nella sostanza quello di aver dimenticato la regola aurea secondo la quale i due processi avrebbero dovuto procedere rigorosamente all’unisono, invece l’allargamento si è realizzato solo nel 2004 e l’approfondimento con il Trattato di Lisbona solo alla fine del 2009. Con il risultato di aver perso qualsiasi spinta propulsiva e qualsiasi vera capacità di progetto sull’uno e sull’altro fronte. Né è stata sufficiente a mascherare tale impasse il gioco di illusioni e fumisterie che ha segnato la stagione della cosiddetta ‘Costituzione europea’.
Basti considerare la situazione di oggi per capire di cosa sto parlando. Siamo infatti in una condizione in cui il progetto federale appare privo di qualsiasi sbocco reale, mentre per altro verso il processo di allargamento, concepito come ‘inserimento degli uguali’ assicurando la effettiva omogeneità dell’intero sistema, è riuscito ad inserire i paesi della Mitteleuropa e dell’area baltica, mentre segna sostanzialmente il passo per quanto concerne il Sud e il Sud-est del nostro continente. Pensare in queste condizioni all’entrata della Turchia (oltre tutto in un contesto in cui vale la regola dell’unanimità), così come dovrebbe essere soprattutto in un momento come questo, rischia di diventare una pia illusione.
E’ dunque necessario, secondo te, cambiare il modello?
A mio parere, sì. Si potrebbe pensare, a questo riguardo, a forme d’integrazione più articolate che vadano dai due estremi di ‘progetti federali’ attuati da singoli gruppi di Stati, sino a modelli di tipo confederale che potrebbero facilitare grandemente l’allargamento dello spazio europeo, segnatamente con l’entrata della Turchia, che a mio modo di vedere rappresenta sempre il passaggio decisivo di qualsiasi strategia europea degna di questo nome.
Senza di ciò, occorre essere chiari e dirlo ad alta voce, lo scenario che si aprirebbe e forse si aprirà sarebbe catastrofico per il futuro del nostro Continente. Esso si ridurrebbe ad uno spazio chiuso e asfittico, incapace di qualsiasi rapporto reale – adeguatamente comprensivo/competitivo – con il mondo con cui confiniamo a Sud e a Sud-est.
Qual è la tua idea per rovesciare tale situazione?
A mio parere occorre a questo punto porre la questione in modo deciso e in sede politica. Noto che nei prossimi tempi l’UE definirà le regole del suo assetto economico e finanziario nella logica del rafforzamento della disciplina di Maastricht. E’ questo un appuntamento a cui il nostro paese non può evidentemente sottrarsi. Ma niente e nessuno potrebbe impedirgli d’iscrivere questo accordo in un contesto politico più ampio, ponendo all’ordine del giorno, dell’UE in generale e della Germania in particolare, l’esigenza centrale di un disegno Euro-Mediterraneo e cioè di un riequilibrio generale dei suoi orizzonti internazionali.
Non è un progetto troppo ambizioso per l’Italia?
Ambizioso e se volete anche un po’ velleitario, almeno nella attuale situazione. Però voglio aggiungere che si tratta di un passaggio assolutamente necessario, almeno per il nostro paese, perché l’Italia ha assoluta necessità, e non solo per i problemi che si sono spalancati sull’altra sponda del Mediterraneo, di riportare il peso della politica europea da Nord-est verso Sud-est. Certo la nostra situazione di partenza è difficile e squilibrata: mi ricorda quella – lo dico per fare un esempio – dei sindacati che nel corso degli ultimi vent’anni hanno ripetutamente firmato “patti sociali” o “patti per l’Italia” di cui abbiamo persino dimenticato il conto. Identico, infatti, è lo schema che si potrebbe suggerire: da una parte c’è chi assume un impegno concreto, e almeno in una prima approssimazione esigibile (per i sindacati fu la autodisciplina nelle richieste salariali, per l’Italia, oggi, sarà il rientro dal debito); dall’altra una controparte che assume impegni generali e generici, sicuramente difficili da verificare, per non dire da esigere. Insomma, applicando questo schema al caso che ci interessa, ci rendiamo immediatamente conto di come lo squilibrio tra le parti sia ancora più clamoroso: perché da una parte ci verranno richiesti, nel nuovo e ancora più cogente patto di stabilità, impegni quanto mai vincolanti e collegati a meccanismi sanzionatori; mentre la richiesta di vincolare l’Unione ad una politica mediterranea, anzi ad una dimensione mediterranea, sembra perdersi nel futuribile di quelle ambizioni o di quelle proposte che nutrono da decenni il dialogo tra le diplomazie e gli innumeri convegni in cui si disperdono le nostre politiche estere.
E’ qui che però l’Italia deve trovare un livello di proposta quanto più possibile efficace: e per esserlo, deve essere ad un tempo molto ambiziosa ma anche molto concreta. Insomma, l’idea di “rilanciare il dialogo” non servirebbe a nulla; mentre richieste specifiche e limitate (come quella dell’entrata della Turchia o di un piano Marshall a sostegno di questo o quel paese o di questo o quel progetto) non varrebbero, di per sé, a contrastare la “path dependence euro-baltica”oramai in corso da tempo. Dobbiamo allora, come dicevo, mirare più in alto. Nel concreto, proporre all’Unione un approccio, rispetto al mondo arabo e mediorientale che abbia come suo punto di riferimento il modello di Helsinki.
In che senso, precisamente?
Vedo che anche voi faticate a ricordare. Il fatto è che quegli accordi sono stati oggetto di una vera e propria ingiustizia storica: essendo stati prima bollati, dai nostalgici della guerra fredda e dai neocon di qua e di là dell’Atlantico, come un vero e proprio cedimento nei confronti del Cremlino (ricordate la “finlandizzazione”?); mentre, poco più di un decennio dopo, il crollo pacifico del sistema comunista veniva attribuito, tutto intero, all’azione del papa e di Reagan. Ricordo, allora, che i patti di Helsinki, nel 1975, furono sottoscritti (una novità che non tutti apprezzarono) anche dalla Santa Sede (nella veste di Agostino Casaroli). Questa, come sempre, vedeva lontano: tanto da percepire, con estrema lucidità, che intese apparentemente (ma anche formalmente) costruite a difesa dello status quo potevano, invece, diventare un potente strumento di cambiamento. Avrei, personalmente, molte altre considerazioni da fare sull’argomento. Ma siccome stiamo parlando non di rapporti Est-Ovest ma di rapporti Nord-Sud ( o, per essere più esatti, tra nord-ovest e sud-est) mi limito a ricordare che gli impegni comunemente assunti dai firmatari del trattato si articolavano in tre distinti settori. Avevamo così il riconoscimento pieno degli equilibri territoriali e politici scaturiti dalla seconda guerra mondiale (leggi soprattutto Germania est), con l’inviolabilità dei confini esistenti. Questo punto tranquillizzava il Cremino e gli permetteva di assumere gli altri due impegni, soprattutto il terzo. Il secondo impegno era infatti per esso meno compromettente, riguardando lo sviluppo dei rapporti economici tra mondo comunista e occidente (leggi concorso alla crescita e alla riqualificazione economica dei paesi dell’Est). Ma, soprattutto, in tal modo le parti potevano sottoscrivere la terza e fondamentale garanzia per la libera circolazione di persone e idee. Fu questo il formidabile meccanismo che erose progressivamente le molteplici cortine di ferro che imprigionavano individui e cervelli, e che crearono le irreversibili garanzie per la libera manifestazione del dissenso.
Perché richiamo questo schema? Lo faccio perché lo ritengo estremamente pertinente come obbiettivo ultimo di un dialogo mediterraneo e mediorientale che, senza questo ancoraggio, rischia di perdersi nel nulla. E lo ritengo pertinente perché pone il dialogo su basi concrete e paritarie; con obiettivi e vincoli che significano qualcosa per tutti i contraenti.
Vuoi fare qualche esempio?
Certamente. Considerate il “primo cesto”; quello della sistemazione delle questioni territoriali. E che significa, in chiaro, impegno ad una soluzione collettiva, concordata e internazionalmente garantita delle questioni israeliano-palestinese e cipriota. Il “secondo cesto”, lo sviluppo dei rapporti economici, non ha bisogno di ulteriori delucidazioni. Faccio qui osservare sommessamente che le previsioni sullo sviluppo del mondo formulate da esperti e in sede ufficiale assegnano al mondo arabo e anche all’Africa sub sahariana crescite quantitativamente e qualitativamente assai significative; a fronte di un tendenziale declino per un continente europeo che tendesse a chiudersi in sé stesso. E aggiungo, per concludere, che il capitolo “libero movimento di idee e persone” avrà a che fare con molte libertà: e con libertà, come quella di emigrare, che riguardano anche noi. Personalmente ritengo che questo sarà il problema principe dei prossimi decenni, e che sia meglio negoziarlo collettivamente e in un quadro multilaterale piuttosto che gestirlo da soli e in una logica difensiva che forse garantisce la gestione politica del problema ma non certo una sua gestione razionale.
Riconosco in conclusione che proporre un Helsinki mediterraneo all’Unione, così come essa è, e per iniziativa di Stati che sono quello che sono, può suonare utopistico. Ma ci sono circostanze in cui la “volontà politica ”ha bisogno dell’utopia”, come tra l’altro ha ricordato Joschka Fischer in una recente conferenza sul futuro dell’Europa.
Chiudiamo da dove avremmo, forse, dovuto cominciare; e cioè dai rapporti tra Italia e Libia. Quelli di ieri ma soprattutto quelli di oggi e di domani.
Dico subito che la questione ha bisogno di un approccio bipartisan. Quello che con diverse accentuazioni, c’è stato ieri. E quello che occorre ricreare oggi. Prendendo in considerazione non le nostre opinioni ma le necessità obbiettive del nostro paese.
La situazione è gravida di pericoli. Che però non sono quelli dell’emirato, califfato, qaedismo e via discorrendo. E nemmeno dell’arrivo di un’orda di barbari nel nostro paese.
Il rischio, tanto più grave quanto più l’attuale crisi si prolunga, è quello del buco nero; dello “Stato fallito”; di una nuova Somalia alle nostre porte. Ed è un esito tanto più probabile quanto più l’attuale conflitto si estende e si acuisce finendo con il distruggere, in un paese che, a differenza dall’Egitto o dalla Tunisia, non possiede, a partire dall’esercito, strutture o istituzioni collettive cui fare ricorso, e manca quindi di ogni possibile futuro unitario. Di qui l’assoluta necessità di promuovere, anche e soprattutto attraverso una fattiva iniziativa internazionale, forme di intesa e di aggregazione le più vaste possibili, così da assicurare un passaggio per quanto possibile concordato al “dopo Gheddafi”.
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