[Alienamenti] Di Breivik o della prospettiva dall’alto
giovedì 28 luglio 2011 | Scritto da Tommaso Gazzolo - 3.037 letture |
Anders Behring Breivik ha ucciso ottantacinque persone su un’isola della Norvegia. Ed è stata un’uccisione che, a dispetto della svolazzata di giornali e commenti “a caldo”, costituisce un gesto profondamento impolitico. Il senso dell’azione di Breivik infatti, quell’inseguimento a caccia degli uomini, quasi fra le lepri, si compie soltanto in una prospettiva precisa, verso un punto di fuga che è quello dell’Erostrato di Sartre: “Gli uomini, bisogna vederli dall’alto”. Quel desiderio di sparare su di loro, sulla folla anonima, nasce nella prospettiva dall’alto, che è prospettiva della morte.
Esiste un alto del tempo e dell’esistenza, quello in cui Omero, scriverà Nietzsche, lascia guardare dall’alto gli dei, sui destini degli uomini, destini che erano “gioie della crudeltà”. In realtà, nel mondo classico, lo sguardo dall’alto è proprio del “saggio”: è il punto “in cui ci trova sulla linea tra la vita e la morte, in cui si è alle soglie dell’esistenza”, come scriverà Foucault a proposito della consolazione senechiana a Marcia. Lo sguardo dall’alto del “saggio” indica, cioè, la posizione dell’uomo nel cosmo, la contemplazione di quell’ordine perfetto dei cieli. Come si legge nel Sublime, trattato anonimo del I secolo d.C., il saggio è chiamato a “vedere il mondo dall’alto e mirare l’abbondanza della sua bellezza”.
La modernità modifica il senso di quella prospettiva. Dall’alto – da quel punto più alto del tempo che è la Montagna del diavolo – Hobbes contemplerà l’iniquità e le catastrofi della guerra civile descritte nel Behemoth. La prospettiva dall’alto diviene lo sguardo sulle folle metropolitane, sulle strade: è lo choc dei versi di Baudelaire sulla “passante”, della città che sembra sempre sovrappopolata, come scrive Benjamin. Valery aveva scritto che l’uomo della metropoli “ricade allo stato selvaggio, e cioè in uno stato di isolamento”. Tale è Erostrato, il quale, a dispetto del richiamo classico del nome, è una figura esistenziale tipicamente moderna. Nell’istante in cui il singolo non sa più ritrovarsi nel gruppo come praxis, la vista degli uomini gli appare insopportabile.
Soltanto, infatti, l’integrazione nella comunità politica, consente al singolo di sopportare la prospettiva dall’alto. E la strage di Breivik ne costituisce la prova: isolato, il suo gesto è quello impolitico. Iniziando a contemplare l’umanità dall’alto, il singolo scisso dal gruppo separa lo spazio dal mondo, la terra dagli uomini. Il senso dello spazio cessa di essere “orientamento direttivo”: esso non dis-allontana più, nega che lo spazio sia nel mondo. Il suo spazio non “con-costituisce” il mondo, ne è radicalmente separato: esiste il suo sguardo dall’alto, su vite insignificanti. Nel disperato tentativo di essere finalmente “riconosciuto”, l’Erostrato non capirà che, in questo caso, uccidendo gli altri renderà per sempre impossibile quel riconoscimento. La sua libertà si avvera, infatti, mediante la morte degli altri, ma tale “negazione naturale della coscienza” è, come scrive Hegel, “negazione senza autonomia”, in quanto sopprime se stesso, sopprime la possibilità di essere riconosciuto.
Questo desiderio estremo di negazione assoluta, in cui si realizza la libertà soltanto “astratta” dell’individuo, è intrinseco allo choc provocato dalle masse. E, nel momento in cui la separazione tra il singolo ed il gruppo, le masse, diviene sempre più evidente, non possiamo che attenderci il ripetersi di gesti analoghi a quelli di Breivik.
I singoli “cani sciolti” tentati da quella prospettiva della strage, dalla vista dall’alto, sono, in ogni città, molto più numerosi di quanto comunemente si è portati a credere. Sarebbe errato ritenere che si tratti di una prospettiva nichilistica o, al contrario, di un atto che cerca disperatamente un significato, oppure ancora di un gesto di fanatismo. Si tratta, infatti, di spiegazioni che presuppongono un fondamento politico dell’azione, che è del tutto assente nell’Erostrato moderno.
Questa figura, di cui le nostre città saranno sempre più popolate quanto più perderanno l’idea della praxis, è impolitica, perché il suo gesto corrisponde a quello di chi trova ormai che la propria libertà, il proprio desiderio ed il proprio riconoscimento possa dipendere soltanto da una radicale separazione con il resto del mondo. Egli decide allora di sparare sugli uomini in base ad una semplice “superiorità di posizione”, a qualche giorno passato ad osservare la gente da un balcone, da un tetto, da una terrazza.
Tommaso Gazzolo ci guarda tutti un pò dall’alto. O forse no.
E’ un pezzo che è un saggio di letteratura, e d’accordo. E i “cani sciolti” sono tanti e d’accordo. E il senso della prospettiva dall’alto l’abbiamo avuto modo di leggere in tante stragi post moderne e d’accordo.
Però questo Breivik ha scritto una mezza tonnellata di pagine del tutto politiche prima del gesto. O no, Tommaso?
Breivik ha scritto milioni di pagine per giustificare la sua azione. Dubito, tuttavia, che vi sia riuscito. Penso che abbia cercato disperatamente di presentare il suo gesto in termini politici, sebbene quel gesto sfuggisse, sebbene lo sentisse come qualcosa, prima che politico, di esistenziale, di singolare, di individuale. Breivik ha ucciso perché odiava gli uomini, i musulmani o chi per essi (li odiava come inimici, suoi nemici privati): non è riuscito, nonostante i suoi scritti, ad odiarli come nemici di un gruppo, nemici politici (hostis). Posso odiare il mio vicino negro: ma se lo uccido, è perché odio lui, questo mio vicino negro, perché odio la sua musica a tarda notte, i suoi amici che lo vengono a trovare, il suo volto, i suoi capelli. Forse tenterò di sostenere che l’ho ucciso perché odio i negri, ma che senso può avere questa giustificazione? Non c’è uccisione politica se non attraverso il gruppo e la sua prassi, attraverso l’identificazione della mia azione personale con quella di una comunità politica. L’azione di Breivik non ha alcuna giustificazione politica, perché non ha fondamento nel senso dell’opposizione reale tra gruppi, nonostante tutte le pagine in cui egli ha tentato di astrarre il suo odio singolare. Non la ha, come non la hanno le azioni degli ultras negli stadi, delle sparatorie nelle scuole americane: sono soltanto prospettive, avrebbe detto Enzensberger, di una guerra civile singolare, individuale, impolitica.
Boh, non ho letto ne’ voglio leggere tutto Breivik, ma a me pare che i gruppi siano ben chiari: da un lato chi incarna i “veri” valori norvegesi, scandinavi, europei, “pagano-cristiani”. Dall’ altro, chi ha relativizzato tali concetti, aprendo le porte “di casa nostra” all’ altro. Infatti lui ha colpito chi tra i suoi compatrioti ha minacciato i suoi valori e le sue concezioni di gruppo/nazione, non persone che conosceva ma odiava. A me stupisce l’ ipocrisia attorno a tal gesto. E’ un gesto aberrante perche’ lo sono le idee malate che lo hanno partorito. Ma il gesto (a differenza dei politicanti populisti che hanno scherzato col fuoco per profitto elettorale) e’ di una notevole coerenza con le “idee”. Non si puo’ davvero fermare l’emigrazione se non con le armi. Non si puo’ argomentare contro la tolleranza e l’ apertura senza essere intolleranti e violenti.
La sua azione non ha bisogno di giustificazione piu’ di quanto non ne hanno bisogno certe idee aberranti. Ma date le ipotesi, il suo e’ un atto consequenziale. Consequenziale all’ abisso con cui a ripetizione gioca l’ Occidente. Ci vuole una personalita’ “malata” per prendere sul serio certe cose, ma cio’ non toglie che in passato personalita’ malate siano state messe a capo di potenti paesi.