[LabouraStoria] Colonialismo italiano, una rimozione di regime
lunedì 16 maggio 2011 | Scritto da Antonella Soldo - 3.356 letture |
C’è chi labourante lo è per noia, c’è chi lo fa per professione, Antonella Soldo nè l’una nè l’altra, lei è una labourante d’elezione. I suoi articoli su Notizie Radicali meritano sempre d’essere letti, e ovviamente riproposti. Una lezione di storia ogni tanto del resto, non può fare che bene!
C’è un punto di incontro tra due delle grandi notizie di questo 2011: le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia e le rivoluzioni del mondo arabo. L’anniversario dell’Italia unita ha messo in crisi il paese: dietro le celebrazioni ufficiali pare abbiano avuto grande spazio le posizioni revisioniste di questo fatto storico che parlano di “conquista” del sud e provano a riportare l’attenzione sulle verità sacrificate dalla storia ufficiale. Ma proprio sul non detto della storia ufficiale, sui buchi neri della storia italiana ce n’è uno che in questi tempi si impone alla nostra riflessione: il colonialismo italiano. Il nostro paese non ha mai affrontato questa pagina con la giusta consapevolezza, non ha elaborato a sufficienza il dramma. Questa pagina è e resta un alzhaimer di stato, una rimozione di regime, che come tutti i drammi non elaborati, prima o poi ritorna a galla. Come in questi giorni.
Il buco nero: il colonialismo italiano
Iniziato in ritardo, appena dopo l’Unità, e ristretto nel tempo, il colonialismo italiano è sempre stato considerato niente di più che un’avventura. Questo ha permesso che con un colpo di spugna gli italiani si lavassero via dalla coscienza le violenze esercitate nelle colonie. In Libia gli italiani crearono campi di concentramento, attuarono impiccagioni collettive e deportazioni di massa verso l’Italia; in Somalia costrinsero la popolazione al lavoro forzato, in Eritrea lasciarono il segno con gli inferni delle carceri, come quello di Nocra e con l’uso massiccio di gas come fosgene e iprite (già vietati dalla Convenzione di Ginevra) per piegare la resistenza della popolazione. In Etiopia ricordano ancora il massacro di duemila monaci del monastero di Debrà Libanòs o la feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito all’attentato, il 19 febbraio 1937 al maresciallo Rodolfo Graziani. Ancora in Libia negli anni Trenta tutta la popolazione dell’altopiano della Cirenaica, 100mila persone, venne deportata in campi di concentramento nel deserto della Sirte. In 40mila morirono per fame, epidemie, violenze, uccisioni. Finita l’avventura imperialista comincia un rapido processo di rimozione storica. Il Ministero delle Colonie chiude i battenti, mentre quello degli Affari Esteri pubblica decine di volumi di “L’Italia in Africa”, imponente opera nella quale sono elogiate le virtù della colonizzazione italiana. Un processo di rimozione che oggi riguarda in buona parte i media e anche il sistema educativo. Nel 1979 Gheddafi affida al regista Mustafà Akkad l’incarico di girare in Cirenaica un colossal sulla resistenza libica contro gli italiani. “Il leone del deserto” viene presentato a Cannes con un buon successo ma non sarà mai ufficialmente proiettato in Italia. “Il film è sgradito”, dirà il sottosegretario agli esteri Costa nel 1981 e nel 1987 una proiezione a Trento verrà proibita dalla Digos.
Il tappo: il trattato Italia-Libia
“Accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo e vi chiedo perdono.” A Sirte davanti al parlamento libico Silvio Berlusconi è apparso quasi commosso. Era il novembre del 2008. Pochi mesi prima il Premier aveva firmato con il generale Gheddafi un trattato di amicizia e cooperazione con cui chiudere il contenzioso coloniale. Un risarcimento oneroso, 5 miliardi di dollari, in cambio di maggiore cooperazione economica (la porta aperta per imprese come Impregilo, Ansaldo Breda, Enel e soprattutto Eni) e di un aiuto nella lotta all’immigrazione clandestina. E il problema è proprio qui. Praticamente il governo italiano ha versato fondi e fornito mezzi perchè la Libia bloccasse quelli che Maroni chiama “esodi biblici”. C’è un documentario girato da Andrea Segre e Dagmawi Yimer, “Come un uomo sulla terra”, che spiega perfettamente quello che è avvenuto in Africa dopo il trattato Italia- Libia. Tutte le persone provenienti dall’Africa sub Sahariana, in particolare dal Corno d’Africa (Etiopia, Somalia, Eritrea), attraversavano il deserto tra Libia e Sudan in condizioni disumane e una volta arrivati in Libia, restavano intrappolati qui, vittime di un gioco perverso di corruzione e violenza nel rimpallo tra polizia libica e “intermediari”, imprigionati senza accuse, senza processi, senza pene da scontare, con dei riscatti altissimi da pagare ogni volta. Molti di questi sfortunati sono stati venduti dalla polizia agli intermediari e viceversa anche sei-sette volte. E’ vero che Berlusconi è stato il primo Presidente del Consiglio a chiedere scusa per il colonialismo, ma in queste scuse c’è più di qualcosa che non torna. Il trattato Italia- Libia è stato un tappo messo dal Governo per chiudere questa storia senza farci i conti. Senza voler guardare in faccia i somali, gli eritrei, gli etiopi e i libici. Insomma, non c’è stato post-colonialismo ma ci sono scuse coloniali, con il patto che qualcuno li tenga lontano dalla nostra vista. Ma l’Italia ha delle precise responsabilità storiche e politiche nei confronti di questi popoli, di queste storie, di questi corpi.
“Ho comprato casa a Lampedusa”
Con le rivolte del mondo arabo il tappo messo dal trattato Italia-Libia è saltato. Le persone che arrivano a Lampedusa non sono solo tunisini in fuga da un paese che ha appena compiuto una rivoluzione. Sono somali, eritrei, etiopi, sudanesi, congolesi riusciti a liberarsi dalle trappole e dalle torture della polizia libica. Il viaggio in mare dalle coste libiche a Lampedusa a bordo di bagnarole a rischio di naufragio è solo l’ultima parte di un viaggio che ha dell’incredibile. Sono loro i “pericolosi criminali in fuga dalle carceri libiche”. Nel famoso discorso del 30 marzo scorso a Lampedusa Berlusconi ha assicurato di aver “trattato con il nuovo governo tunisino il controllo dei porti e delle coste per non consentire nuovi imbarchi, e l’impegno dell’accettazione di tutti i tunisini che verranno rimpatriati. In 48-60 ore Lampedusa sarà abitata solo dai lampedusani”. Purtroppo gli sbarchi e le stragi in mare di questi mesi ci dicono che non si tratta solo di tunisini, la questione sbarchi è più complessa. Tra le eccentriche proposte del Premier per rilanciare l’isola (casinò, campi da golf, piano di colori in stile “Portofino”, ecc.) c’è stata anche quella di candidare Lampedusa al Premio Nobel per la pace. A garanzia di tutto Berlusconi ha messo la sua villa sull’isola, acquistata appena la notte prima su E-bay. Mi viene in mente il 1991, quando alcune associazioni umanitarie proposero di candidare il Salento al Nobel per la pace, per l’accoglienza ai migranti in arrivo dall’Albania. In particolare tra il 6 e il 7 marzo del 1991 sbarcarono al porto di Brindisi ventimila persone. L’8 marzo era indetta una manifestazione delle donne, che fu annullata per l’emergenza. Queste, insieme agli uomini e agli operatori del Centro sociale di via Santa Chiara si unirono allo sforzo di tutta la città di Brindisi che con i propri mezzi si trovò a gestire l’emergenza. Il Centro Sociale divenne il campo docce, disinfestazione e vestizione di migliaia di albanesi. Per giorni a turni massacranti tutti si spesero nelle mense familiari e nell’accoglienza. L’anno scorso l’UNESCO ha riconosciuto il porto di Brindisi come simbolo di pace, quest’anno la città ha indetto tre giorni di grande festa per celebrare i vent’anni dall’arrivo degli albanesi.
Conclusioni: storia e antistoria
Commentando la bocciatura del reato di clandestinità da parte della Corte di giustizia europea di qualche giorno fa, Emma Bonino ha bollato la politica italiana sull’immigrazione come “a trazione leghista: antistorica, populista e demagogica.” “Antistorica” è l’aggettivo illuminante. Da una parte, infatti, il nostro governo proposto una storia ufficiale che ha rimosso le sue responsabilità sul colonialismo, e quindi non aderente al vero, dall’altra parte, invece la storia vera, quella dei cittadini, come nel caso dei cittadini di Brindisi, ci dice che l’umanità si riconosce nell’umanità e che l’accoglienza può prevalere sulla paura.
Antonella Soldo, 24 anni, è una terrona trapiantata a Roma per fare cose inutili come studiare filosofia. Svezzata al giornalismo nei seriosi ambienti di Radio Radicale non è in grado di fare di sè una presentazione auto ironica.
Un’ottima presentazione di se stessi, l’articolo meriterebbe una maggior visibilità, se non altro per l’argomento e per come è stato scritto.