[Bye Bye Blair] Il socialismo europeo tra il Gambero Rosso e un futuro da scrivere
giovedì 14 aprile 2011 | Scritto da Stefano Del Giudice - 1.757 letture |
L’uscita di scena di Zapatero, che ha deciso di non ricandidarsi alle prossime elezioni e passare la mano, segna probabilmente il tramonto della stagione “glamour” del socialismo europeo, ingentilitosi di pragmatismo liberal-labourista per sopravvivere all’era thatcheriana. Sono stati anni a fasi alterne, ora ricchi di vittorie e grandi illusioni, ora amari per le cocenti sconfitte ed i continui sforzi di far coincidere riformismo ed edonismo raeganiano. Non è un caso, infatti, se l’epilogo della parabola del premier spagnolo coincide con l’impennata di consensi che il nuovo leader laburista Milliband, partito a fari spenti fra lo scetticismo generale, ha saputo calamitare su di sé , ponendo l’accento sui problemi di una recessione non ancora superata, ma soprattutto sul tema schiettamente “sinistrorso” delle troppe diseguaglianze sociali ancora da rimuovere.
Il segnale è politicamente interessante , soprattutto perché può segnare una svolta epocale e chiudere finalmente il lungo periodo iniziato verso la fine degli anni 70, con le riforme del mercato del lavoro volute in Inghilterra dal governo Thatcher: fu allora, con l’Europa ancora stordita fra le ansie della guerra fredda e dello shock petrolifero, che le democrazie occidentali decisero che era arrivato il momento di raccogliere la sfida e liberalizzare, uscendo dalla logica di relazioni industriali che ingessavano i rapporti economici e frenavano la crescita del prodotto interno lordo; fu allora che le destre ad ovest e ad est dell’Atlantico decisero di cogliere il desiderio del ceto medio di uscire dal peso esistenziale di una coscienza collettiva troppo opprimente e di recuperare il tempo perduto a colpi di gioia di vivere ed affermazioni personali. La sociologia del tempo (Alberoni docet) si prodiga a spiegare questo nuovo bisogno di privato, mentre l’economia spiega efficacemente che l’uomo, per essere felice, ha bisogno di gratificazioni economiche e di carriera, ma anche di dare sfogo a quell’insostenibile leggerezza dell’essere che, secondo Milan Kundera (il guru per eccellenza dei nuovi tempi) rappresenta il suo lato emotivo più rilevante. E’ la ricetta degli anni ’80, gli anni che qualcuno ha definito “stupidoni” ma che la storia, prima o poi, dovrà studiare attentamente, sia per la svolta liberista più che liberale inaugurata dalla Thatcher, sia per la forte impostazione mediatica che il grande comunicatore Ronald Raegan seppe dare alla sua politica decisionista, capace di bombardare di santa ragione un certo Gheddafi e di fare la pace in nome degli affari con l’orso sovietico dalle unghie ormai spuntate.
Piaccia o non piaccia, gli anni ottanta sono gli anni in cui proprio Raegan cambia la politica e dimostra efficacemente come un ex attore hollywoodiano possa parlare a milioni di elettori guardando fisso una telecamera e riuscendo a catturare molti più consensi di un politico consumato: un uomo solo, con le idee chiare ed un modo incisivo di esprimerle, rappresenta un modello, un esempio di affermazione personale da seguire e possibilmente imitare magari non solo in politica.
Tradotto in termini elettorali, tutto questo spiega l’avanzata generalizzata del centro destra in Europa ed in America, mentre la caduta del muro di Berlino non distrugge soltanto l’impalcatura del vecchio socialismo reale, ma innesca una forte involuzione in termini di consenso anche in quei partiti comunisti che, come in Italia, si erano decisi a tagliare il cordone ombelicale con Mosca per costruire qualcosa di nuovo. Ecco perché, alla fine, ho esordito scrivendo che la vocazione liberal-labourista del socialismo europeo è stata innanzi tutto una questione di sopravvivenza: se la spinta alla modernizzazione del Paese è il motore del programma del Psoe e del suo leader Gonzales, in Italia Bettino Craxi prende il timone di un partito uscito elettoralmente a pezzi da una politica subalterna al PCI di Berlinguer e fa propria la lezione di Pietro Nenni, che ritiene possibile la sopravvivenza del PSI solo in una condizione di assoluta autonomia sia dalla DC che dal PCI.
L’onda lunga del craxismo, arrivato alle soglie degli anni novanta, è sostenuta da una politica di espansione economica, ma anche da tappe di segno decisamente neo-thatcheriano quali l’abolizione della scala mobile e l’ossessivo slogan “meno Stato, più mercato”. Dal punto di vista sociologico, poi, un’orda di partite IVA con i vestiti griffati ed un desiderio inconfessato di discoteche alla moda e macchine fatte col “leasings” (immortale espressione del grande Jannacci) ha rappresentato lo zoccolo duro di questo popolo “ di sinistra ma non troppo”, capace poi di superare la fine politica del craxismo approdando indifferentemente nel calderone berlusconiano o nelle periferie del soggetto sorto dalle ceneri del PCI, ondeggiante fra i sarcasmi dalemiani ed il buonismo glamour- veltronico.
Sembrerà una bestemmia, ma la sinistra che ha scoperto il Gambero Rosso ed il trading in borsa, un po’ tecnocrate, un po’ radical chic, è figlia di Craxi esattamente come Tony Blair ed il suo New Labour sono stati il volto carismatico e ben educato con cui il socialismo inglese si è presentato per tenersi al passo con i tempi ed esistere politicamente, sforzandosi di mantenere un certo appeal presso una società civile ormai permeata di individualismo, anche nelle sue implicazioni peggiori.
Così, mentre il social –pragmatico Zapatero conquista la cattolica Spagna proponendo liberalizzazioni e matrimoni gay, l’unico dinosauro del socialismo di base sembra essere rimasto l’eroico Schultz ,abbarbicato ai banchi dell’Europarlamento per sfanculare il magnate Berlusconi in conflitto d’interessi anche con se stesso: insomma, fra sconfitte elettorali e messaggi politici deludenti,le sinistre possono dire di aver vissuto la conclamazione della propria crisi, dovendo persino sorbirsi i de profundis di pensatori in trasformazione del calibro di Rutelli e Massimo Cacciari ,pronti ad intonare il requiem per l’idea stessa di socialdemocrazia e ad inneggiare ad una “nuova politica” talmente nuova da non recare neppure traccia di contenuti intelligibili.
Non si può trascurare ,d’altra parte, che il taglio schiettamente individualista dell’età raeganiana ha portato fatalmente ad una alterazione del rapporto fra i partiti politici ed i propri leaders ,che sono divenuti spesso talmente opprimenti e totalizzanti da uccidere ogni tentativo di dibattito interno .Questo fenomeno ha sicuramente privilegiato le formazioni di centro- destra ,per molte ragioni assai più portate ad accettare e sostenere il ruolo di personaggi capaci di calamitare consenso con l’immagine della propria affermazione. Il caso dell’Italia ,anzi,ha addirittura dimostrato come la destra abbia potuto sostituire i partiti tradizionali con le formazioni create in provetta dall’edonista Berlusconi ,mentre questo percorso sia molto più sofferto e tribolato se intrapreso da una formazione di impostazione riformista come il PD.
Ma ecco Milliband. Già,Milliband, il leader che non ti aspetti e che al di là delle formule e delle targhette ideologiche ,torna a parlare di storture del mercato e di disuguaglianze da rimuovere. Forse,ora che ci sono meno soldi per fare la bella vita e gli abiti griffati costano troppo anche per un direttore di banca,il lato serio del socialismo torna ad avere una attualità ed una prospettiva , magari incarnata nella promessa di un modello di sviluppo realmente sostenibile e più equilibrato, in cui il concetto di società solidale non è un condensato di banalità e di buonismo,ma è il concreto operare di un sistema complesso di distretti produttivi, di comunità desiderose di ritrovare dignità ed equilibrio, e di una società generalmente bisognosa di ridarsi un futuro e di ritrovare un’etica civile degna di questo nome. C’è insomma da tenere insieme PIL e valori etici, tenendo a mente che gli anni 80 hanno prodotto i libri di Alberoni ,ma anche l’efferato delitto di Pietro Maso e le bolle speculative della finanza trafficona .
E’ chiaro comunque che l’ideologia non può più essere interpretata secondo i vecchi modelli e che una nuova possibile primavera della socialdemocrazia europea deve passare necessariamente per una leale osmosi con le forze contigue ,che siano di ispirazione “liberal” o cattolica, ma certamente uscire dall’ambiguità di un “nuovo senza identità” può addirittura giovare ad un sano e costruttivo dibattito che abbia la forza di partire da un punto fermo: l’era del thatcherismo e del mito dell’affermazione personale sta finendo ,come sta finendo l’utopia dei grandi condottieri di partito e d’impresa ,degli “uomini soli al comando” arroganti e ben pagati a suon di stock option. C’è bisogno di un sistema che sappia creare valore, non solo economico, e distribuirlo nella società, cercando di restringere progressivamente le sacche di emarginazione ed esclusione con politiche mirate nel breve e nel lungo periodo. C’è bisogno di una nuova tutela sociale e di un nuovo codice etico da condividere per salvare l’ambiente in cui viviamo ed il nostro futuro,che torna a coincidere se considerato dal punto di vista del singolo o da quello della collettività. Chi non ci crede, pensi a Fukushima.
Stefano Del Giudice_nato a Montevarchi 45 anni fa, nonostante l’età e studi classici conserva il gusto per il “politicamente scorretto” ed i punti di vista rigorosamente impopolari.
Apprezzo l’impegno di chiunque per il bene e la qualità di Labouratorio, ma molte affermazioni che vengono ribadite contrastano con l’intervento di Papandreou (riportato in questo stesso numero). Il premier greco, che da sempre ha rappresentato (vuoi la crisi, vuoi una vocazione pragmatica ereditata dalla tradizione governista della sua famiglia)una certa visione di “terza via” in stile ‘lib-lab’, conserva tuttora quei nobili principi e quella visione del futuro incentrati sulla questione sociale e sulla lotta alle diseguaglianze. In fondo lo stesso Milliband (Il Rosso) ha più volte ribadito il suo interesse per tutelare la ‘middle class’ da un generale impoverimento dovuto al facile accesso al credito. Le stesse preoccupazioni sono presenti nella Spagna di Zapatero e, anzi, espresse in forma concreta e giudicabile nel tempo.
Un articolo condivisibile ma ha il difetto di portare a sostegno delle tesi del’autore delle vere e proprie falsità. Specie su Craxi (il perenne dente che duole della sinistra italiana). Craxi non ha abolito la scala mobile. Basta leggere ciò che ha scritto Craxi, o ascoltare i moltissimi suoi discorsi disponibili sul sito di radio radicale, per capire che considerarlo il “padre” di Blair è una cretinata. Persino nella sua relazione all seconda conferenza di Rimini (1990) Craxi rilancia la necessità dell’intervento pubblico in economia e i pericoli del mercato lasciato a se stesso. Lo slogan più mercato meno stato non ha origine nel partito socialista. Semmai il socialismo postulato da Craxi somiglia molto proprio a quello di Millband. Così come la preoccupazione per l’impoverimento dei ceti medi. Meglio parlare dell’oggi quindi, evitando di parlare del passato quando lo si conoce poco e male.
E’ vero che Craxi era lontano da Blair. Si prenda questa dichiarazione: “Non c’è dubbio che io non sono uno statalista – uno statalista nel senso collettivista burocratico – ma non credo neanche che l’industria di Stato meritasse la sorte che sta meritando, tenuta in scacco per anni e poi praticamente privatizzata obbligatoriamente a condizioni molto spesso discutibili.” Allo stesso tempo è vero che la “svolta” culturale del Psi di quegli anni è stata fondamentalmente innovativa anche nel rapporto tra la sinistra e l’economia di mercato. Iniziata su questa strada, però, la “terza via” si è dimostrata qualcosa di sostanzialmente differente da un’articolazione “socialista” del rapporto tra sinistra e capitalismo, prima di naufragare nel pantano iracheno. In ogni caso ci sono alcune distinzioni da fare. Primo, Miliband rappresenta veramente un’alternativa? Io credo e spero di sì, almeno lo è a parole. Ma, per scomodare uno che qui c’entra poco o niente, anche Vendola lo è a parole. Anche Obama (forse più pertinente al confronto) lo era e lo è stato solo in minima parte. Il punto è allora che, di fatto, non si scappa: vai al governo e sii l’alternativa. Alcuni dei personaggi citati nell’articolo e negli altri commenti lo sono stati, manca, dopo la depressione zapaterista, qualcuno capace di esserla oggi. Seconda distinzione: Miliband ha una realtà sociale del tutto diversa da quella del resto d’Europa. Spagna e Grecia hanno punti in comune ma sono realtà molto diverse da quella francese e tedesca, per esempio, e anche da quella italiana. Siccome però c’è un fondo che coinvolge tutti, allora l’unica via sarebbe quella di costruire su questo e dare una risposta europea se non globale. Questa secondo me è l’unica via per la rinascita di un vero e proprio movimento progressista. Se le risposte rimarranno nazionali,non ne usciamo.
ps: ma demichelis che balla in discoteca che grande innovazione è stata per la sinistra italiana?!
non mi toccate DeMichelis! Anvedi come balla Gianni!
@Demi Romeo. Giusti citare Papandreu e le preoccupazioni sul’impoverimento della middle class,ma ricordiamoci che qui si gioca su sfumature e quello che si nota è,a mio avviso,che il segnale è quello di un socialismo,sia pure con tutte le variabili “nazionali”, un po’ più Lab e un po’ meno Lib. Per quanto in parlamento non abbia un atteggiamento barricadero,Milliband ha dato sicuramente al Labour una correzione di rotta verso sinistra ed il tempo ci dovrà dire se questo è davvero il segno di una nuova fase o solo una variante tattica .
@Enrico Antonioni. Se rileggi bene,non ho scritto che Craxi è il padre di Blair, ma piuttosto che entrambi,con le inevitabili differenze del caso, si inseriscono in un quadro storico ben definito e sono , ciascuono a suo modo , la risposta del socialismo riformista alle istanze più o meno “liberal” dei ceti medi . Lo slogan “meno stato più mercato” ,tanto per stare nel concreto, non nasce certo dal mondo socialista,ma fu decisamente fatto proprio anche da esponenti di quell’area , il che non è in contraddizione con la riproposizione di un ruolo necessario dello Stato nell’economia,ma caso mai ne ripensa obbiettivi e modalità. Quanto alla scala mobile ,la cui abolizione fu formalmente decretata dal governo Amato del 92,è tuttavia innegabile che la sua fine “politica” avvenne con lo storico taglio di 4 punti percentuali operato dal governo Craxi e la posizione assunta nel successivo referendum , che rappresentarono incontestabilmente una svolta epocale nella politica economica italiana di quel periodo.
Concordo con te che Craxi sia tutt’ora un argomento scomodo per buona parte della sinistra italiana ,ma io credo che proprio per questo sia ora di sostituire alle valutazioni ” di pancia” un esame più sereno ed oggettivo, possibilmente senza demonizzazioni ed indulgenze,ma piuttosto anche con opportuni approfondimenti ( ad esempio le sue riflessioni in tema di Stato regionale e Stato federale sono molto interessanti,specie se viste col senno di poi).
Quindi ti esorterei ad andarci piano con l’uso di certi termini che possono risultare inutilmente offensivi (“falsità” ,” cretinata” ) e di dare giudizi gratuiti sulle conoscenze altrui ,specialmente se poi questi scaturiscono dall’aver letto male un testo che invece di per sè è chiaro,dato che l’italiano non è un’opinione ( e ti invito ancora a verificare che non ho scritto che Craxi è il padre di Blair ,ma che piuttosto ho fatto un parallelo fra i due personaggi ).
@Stefano. io noto un segnale di continuità. l’attività di questi partiti si è adattata al contesto della crisi, che stanno affrontando ancora poiché godono di responsabilità governative. l’esercizio di pensare a questo bilanciamento continuo in termini di contrasto fra l’anima lib e quella lab porta a contraddizioni di fondo. il PSOE ad esempio nell’ultima legislatura ha stanziato il ‘Plan E’ (pari a 10 finanziarie in intervento pubblico sull’economia), ma allo stesso tempo ha liberalizzato i “centri per l’impiego” (in stile blairiano). persino penso sia sbagliato discutere di “andare a destra”, “andare a sinistra” basandoci soltanto sulla misura dell’intervento pubblico piuttosto che su altri parametri (diritti civili, riforme democratiche, libertà di ricerca, mobilità giovanile, viabilità sostenibile, disciplina sulla proprietà intellettuale e diffusione della cultura ecc). insomma si rischia di mettere etichette a qualcosa che nella sua specificità rimane pur sempre Socialista nel contesto nazionale, economico e sociale in cui opera. può sembrare un paradosso, ma la “sinistra zapateriana” (fra tutti il giovane Tomas Gomez) ha le stesse proposte di Pannella in materia previdenziale, mentre egli stesso riesce meglio di qualsiasi partito del centro-sinistra e della sinistra italiana a mantenere aperto il dialogo con l’unità sindacale. potrei fare un discorso analogo nel PASOK citando l’eurodeputato Lambrinidis, il quale a livello europeo sta conducendo una battaglia per promuovere i diritti digitali, quando in Germania questa tematica viene ignorata dal SPD e delegata al piccolo Partito Pirata (che con il suo 2% alle politiche, ha preso più voti di qualsiasi partito della sinistra italiana nelle ultime elezioni, a partire dal 2008!).
@Demi Romeo. I segnali di continuità e di discontinuità non sono mai dei flussi che vanno in senso univoco,nè d’altra parte sarebbe concretamente ipotizzabile che il socialismo europeo si muovesse come un monoblocco omogeneo. Il problema ,caso mai,sta nell’individuare i grandi “trends” ed è innegabile che si stia tornando,anche a causa della crisi economica,a parlare di diseguaglianze sociali in modo un po’ diverso dal passato,superando anche il tema dell’impoverimento della classe media. Questo non significa abbandonare le scelte politiche fatte,ad esempio, in tema di flessibilità del lavoro,ma caso mai ripensarle e correggerle,cosa che ad esempio deve essere fatta in Italia per affrontare la pericolosa piaga del precariato.
Quindi non si tratta di mettere etichette ,quanto di individuare un modo di rapportarsi alla realtà sociale.Anzi,direi che le etichette più pericolose sono proprio quelle del cosiddetto “Lib” e “Lab” di cui tanto si parlava già negli anni 80 ed in cui sinceramente non credo: la politica economica è fatta di strumenti concreti,ora basati sull’arretramento ed ora sull’avanzamento della soglia di intervento/controllo dello Stato e questa soglia innegabilmente funziona ed è vissuta in modo diverso in Spagna ,in Inghilterra ,in Grecia oppure in Italia.
Quindi non sorprendiamoci dei segnali di continuità,ma non dimentichiamo di cogliere anche le tracce di un cambiamento che è a mio avviso lento ma importante,perchè basato su un concetto di coscienza collettiva abbastanza diverso da quello imperante negli anni che ci hanno preceduto.
il fatto di ritornare a parlare di diseguaglianze sociali è alquanto relativo. mi riferisco, in particolare, che la crisi (che i diversi Paesi percepiscono in distinto modo) ha accentuato la domanda di coesione sociale e di tutela del lavoro, ma ciò non vuol dire che prima del 2008 i partiti socialisti d’Europa non si siano interessati della questione sociale, o peggio che l’abbiano barattata con l’interesse manifestato in direzione dei diritti civili e della bioetica. in realtà il discorso è molto più complesso. è vero che comunque si sia privilegiata una gamma di politiche volte soprattutto alla competitività dei mercati, alle esportazioni, alla flessibilizzazione del mercato del lavoro come modello privilegiato di sviluppo economico e sociale, ciononostante – a differenza delle destre europee – queste politiche sono state accompagnate per esempio da una maggiore attenzione verso la non-discriminazione, la parità di genere e di trattamento, la tutela delle minoranze, dando di fatto maggior impulso che in passato. ciò è fondamentale perchè se non estendi la tutela dei diritti della famiglia a nuclei prima non considerati tali, non è possibile erogare servizi sociali ad una data fascia di cittadinanza. oppure la questione di garantire eguale trattamento di lavoro per i dipendenti stranieri. questi sono alcuni esempi di come la questione democratica dei diritti non possa scindersi dalla questione salariale e previdenziale, altrimenti il rischio è la creazione di un welfare iniquo e discriminatorio anziché livellatore e garantista. Ciò era gia stato compreso prima del 2008 ed è giusto che si prosegua in questa direzione, nonostante le difficoltà economiche di molti governi rossi.
@Demi Romeo. A mio avviso, la realtà da cui bisogna partire è fondamentalmente una ,ossia che le riforme del mercato del lavoro operate dalla Thatcher e la spinta alla deregulation che fu tipica del periodo raeganiano costruinsero molte forze labouriste a venire a patti,ciascuna a suo modo, con il neoliberismo che contagiava la classe media.Tipico esempio italico fu l’operato di Gianni DeMichelis,ministro del lavoro del governo Craxi,che da un lato varò la riforma delle pensioni fortemente restrittiva per i pensionandi e che si segnalò con la famosa formula della job creation all’italiana (” Il lavoro? Inventatevelo!”) che non sembra il massimo in fatto di politiche per l’occupazione,ma che è un magnifico spot per il mito dell’affermazione individuale.
Gli esperimenti e gli studi fatti in materia di flessibilità da giuslavoristi di matrice socialista sono un’altra storia e non discendono dal problema della cattura del consenso,quanto piuttosto dall’evoluzione scientifica di una materia complessa ed in perenne evoluzione.
Tutte le considerazioni che muovi ,in effetti, mostrano come la questione della realizzazione di un moderno sistema di wellfare ,ovviamente centrale per ogni forza che voglia definirsi progressista, stia in effetti emergendo sempre più nitidamente nell’opinione pubblica e stia ponendo alle forze di ispirazione socialiste una serie di interrogativi non più eludibili .Ecco quindi che ritornare a parlare di diseguaglianze sociali,per quanto relativo,ha comunque un suo valore, in quanto segna inbdiscutibilmente un certo cambiamento nell’agenda,per fare un esempio,del new labour di Milliband . Che questi temi siano sempre stati,in qualche modo ,delle forze di ispirazione socialista non sorprende ( ed anzi mi sorprenderei del contrario) ,ma non si può fare a meno di osservare che la spensieratezza glamour degli “anni stupidoni” ed il pragmatismo degli anni della finanza globale hanno lasciato il posto ad una diversa consapevolezza del momento storico che stiamo vivendo.
Non c’è bisogno di menzionare lo scenario politico di 30 anni fa (molto diverso da quello attuale) per giustificare il cambio di rotta della linea politica (che è giusto che ci sia per ragioni di democrazia interna e di adattamento alla società). Non condivido il modo di esprimere questa frase: “mentre il social –pragmatico Zapatero conquista la cattolica Spagna proponendo liberalizzazioni e matrimoni gay…” come se la questione delle liberalizzazioni e dei diritti civili cozzi con la questione sociale, limitando cosi la descrizione di questi governi ad un’opera disinteressata nei confronti della società del lavoro e della coesione sociale. comprendo la sacrosanta esigenza di far autocritica, ma se accostiamo l’azione dei partiti socialisti (da blair in poi) con i neocons, rischiamo di farci un tremendo autogol agli occhi della gente. dovremmo anzi fare il contrario, cioè ribadire ciò che ci ha distinto dalle destre europee anche in campo economico e sociale durante gli ultimi anni, anche laddove si sia operato con misure liberali, pertato giustificandone le ragioni. quindi invito sempre a non confondere quelle che sono misure di austerità con la linea politica dei partiti perchè nel contesto economico attuale l’interesse dei socialisti al governo non è preservare l’identità ideologica, bensì far l’interesse del Paese. Ed ecco che il “social-pragmatismo” è una risorsa imprescindibile, e non – come sostieni – un fattore di decadenza della vita pubblica. Il ritiro di Zapatero lo dimostra.
ps. se Zapatero non avesse fatto le riforme che ha fatto, avrebbe condannato gli Spagnoli a cedere la loro sovranità finanziaria alla BCE e al FMI, già come è successo con Irlanda e Grecia, e come fra un po’ accadrà in Portogallo. gli Stati di oggi non sono delle autarchie e se non dai fiducia agli investitori stranieri sei spacciato. Investire soltanto sul settore produttivo industriale vorrebbe dire attendere diversi anni e quindi né i tempi della democrazia, né la pazienza dei cittadini arriverebbe a tanto. le politiche occupazionali si fanno con l’accordo fra imprese e sindacati.
@Demi Romeo. Lo scenario politico di 30 anni fa,per molti aspetti, è un punto di partenza importante per comprendere le dinamiche e gli avvenimenti degli anni successivi. E’ un metodo di analisi come un altro e può piacere o meno,ma resta un metodo che ha una sua logica ed una sua correttezza.Quindi non si tratta di fare autocritica ,ma semplicemente di analizzare le cose senza tabù e senza preconcetti,dato che la frontiera fra attualità politica e valutazioni di lungo periodo comportano spesso un cambio significativo di rpospettiva.
Quanto alla definizione che ho dato di Zapatero ,il “social-pragmatico etc ” , non vuole sottolineare una contraddizione fra diritti civili e liberalizzazioni economiche (che anzi storicamente vanno di solito di pari passo) ma mira piuttosto ad evidenziare la relativa novità del premier spagnolo rispetto al suo Paese, anche se probabilmente non nego un vaga nota di delusione personale ,dato che da lui mi sarei aspettato qualcosa di più ,soprattutto sul piano delle misure economiche atte a prevenire bolla speculativa che ha aggravato la posizione della Spagna.
Termino con una nota di interpretazione autentica sul social pragmatismo: esso è risorsa imprescindibile finchè resta un atteggiamento di flessibilità mentale, utile a cogliere gli aspetti della realtà sociale per inserirsi con le proprie idee e farle vincere.Questa concezione è stata magnificamente incarnata da Olof Palme,uomo di coraggio e di grandi ideali.
Il social pragmatismo diventa purtroppo una forma di manierismo politico quando accentua l’aspetto della ricerca del consenso fine a se stesso e non si trasforma in politiche capaci di sopravvivere alla parabola dei propri testimonials. Si tratta di un meccanismo subdolo,spesso involontario,ma alla fine devastante. Probabilmente Zapatero se ne è accorto in tempo o forse ( ma siamo alle opinioni,perchè questo davvero può saperlo solo lui) ha semplicemente capito che non avrebbe avuto più molto da dire.
Nicolò Cavalli15 aprile 2011 alle 13:35
ps: ma demichelis che balla in discoteca che grande innovazione è stata per la sinistra italiana?!
Straquoto!!
E’ importante, ma se dobbiamo partire dagli anni ’80, dobbiamo anche considerare la stagnazione degli anni ’70, le crisi petrolifere, la marcia dei 40 mila di Torino. è un errore di metodo scegliere per comodità un “anno zero” e sviluppare da là in poi una discussione. per evitare questo, io penso che si possa partire già dal 2008 e mantenerci nella decade, dando per assodata una certa storia. per il resto accolgo la tua precisazione.
E infatti io un “anno zero” in senso stretto non l’ho preso.Ho preso un riferimento chiaro( le riforme del mercato del lavoro di Margareth Thatcher e l’avvento di Raegan) indicando proprio come la trasformazione non è stata semplicemente politica,ma sociologica e persino di costume e pertanto necessariamente graduale. E’ chiaro che la storia deve ancora impossessarsi con decisione di questo territorio ,svolgere e spiegare scientificamente tutto ciò che portò,ad esempio, alla svolta dei referendum sulla democrazia interna con cui la Thatcher legò le mani ai sindacati britannici .C’è molto da meditare su quel periodo e sulle scelte di quel tempo, perchè io ,sinceramente,non me la sento di dare tutto per assodato.
Piuttosto,ti confesso che avrei paura a partire dal 2008 o giù di lì , dando per scontato il pezzo di storia immediatamente precedente: avrei paura a pensare un “futuro senza memoria” proprio perchè personalmente ritengo che l’equilibrio fra wellfare e liberalismo sociale ( concetto che culturalmente preferisco al mero liberismo,che è tra l’altro una formula più teorica che concreta)non si raggiunga in base ad intuizioni o analisi ex nunc ,sia pure molto accurate,ma solo attraverso un faticoso e necessario procedere per approssimazioni successive.In questo senso,l’esperienza di Blair e di Zapatero ,come quelle della SPD e dei socialisti francesi,rappresentano sicuramente terreni di confronto e di spunto,come innegabilmente c’è molto da riflettere ( e lo ripeto: senza tabù !!) sulla parabola di Craxi e del PSI.
Ovviamente,e qui lancio l’ultima provocazione, a patto di non trasformare la memoria in un mercatino dell’usato ,una bancarella in stile deja vu per chi ha bisogno di riclare idee altrui.
cavolo ma perché non c’è la funzione “mi piace” sui commenti di labouratorio??
leggetevi Dove andiamo a ballare questa sera? di Gianni edito Mondadori, altro che Spini e Galli!