[La Libia brucia] Il caso libico. Possibile salvare la faccia?
venerdì 25 marzo 2011 | Scritto da Demi Romeo - 920 letture |
Negli ultimi giorni la notizia che interessa le colonne di tutti i giornali, ore di programmazione televisiva ed innumerevoli post cliccati e commentati sulle reti sociali riguarda una questione che, ironia della storia, si ripropone con forza e controversia sia nel 150esimo anniversario dell’Unità, che a distanza esatta di un secolo dall’occupazione italiana. Il caso libico.
Una questione gravosa che cento anni or sono divise – come accade oggi – la vita politica italiana. Prima, tra i sostenitori del colonialismo africano e le personalità contrarie, mentre – subito dopo – fra i neutralisti e gli interventisti avversi all’imperialismo manifestato dalle potenze di terra. Da allora il modello di sviluppo occidentale e le vicende della mezzaluna islamica conoscono una continuità, un legame simbiotico che emerge nelle più tipiche trasformazioni conosciute al mondo nel corso del Tardo-Novecento: la grande macchina industriale alimentata dagli idrocarburi, che incrementano la produzione di massa e la logica consumistica; e inoltre l’aumento delle nascite e della speranza di vita.
Da quando ha inizio, dunque, la escalation di rivolte popolari nel Magreb, si vede per la prima volta l’affermarsi di una sollevazione in gran parte generazionale, che è figlia di quella crescita demografica registrata negli anni dell’età petrolifera. I vari “petrol-regimi” sono abili nel trovare nicchie di mercato favorevoli nel caos della guerra fredda e, pertanto, la loro stabilità politica viene garantita a prezzo degli equilibri internazionali retti sul costo dell’energia. Per alcuni versi, è proprio il fattore energetico che lega alcuni regimi islamici all’Occidente ed affievolisce gli spazi del fondamentalismo, sebbene sia sempre l’energia a caratterizzare d’altronde le rivoluzioni e a divenire il pilastro portante del nesso fra indipendentismo ed islamismo nelle questioni che sollevano ora i nuovi rapporti problematici con il mondo occidentale, nelle sfere sia del conflitto religioso che della rilevanza geopolitica e commerciale assunta nel frattempo.
Questa inedita formula magrebina composita di regimi militari, terzomondismo ed indipendentismo islamico – già alla luce dello sviluppo capitalistico che li ha caratterizzati nei grandi mercati finanziari ed internazionali – oggi pare richiedere, nelle sue forme più disperate, una sponda interna che preveda l’avvio di un processo per le libertà politiche e a sostegno della coscienza civile informata, che serva finalmente da supporto alla pianificazione democratica dell’economia e alla fase costituente delle nuove istituzioni. Almeno per quanto si speri.
Tuttavia le aperture manifestate da Tunisia ed Egitto in direzione di una graduale transizione (ancora indefinita), soccombono dinnanzi all’aggravarsi delle vicende libiche che, in forma opposta alla destituzione pacifica dei vicini Presidenti, presentano invece le tragiche sembianze della crisi umanitaria nella quale è precipitata la rivolta proveniente dalla Cirenaica, oltre che il generale e conseguente eccidio della popolazione civile sotto gli attacchi delle truppe lealiste.
Pertanto è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, lo scorso giovedì, delibera una risoluzione di intervento coercitivo da parte della comunità internazionale (la Risoluzione 1973) volta a promuovere il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale mediante il raggiungimento del ‘cessate il fuoco’, l’applicazione del presidio aereo ad opera della Coalizione e il sostegno umanitario alle popolazione colpita, secondo quanto viene rinviato al Titolo VII della Carta ONU in caso di minaccia alla pace. Esclude invece qualsiasi intervento di terra e l’eventuale destituzione coattiva del Colonnello Gheddafi.
Ammetto un po’ di sconforto. Dopo alcuni giorni dall’avvio delle operazioni, i risultati della sola ‘no-fly zone’ non sono incoraggianti. La Coalizione pare naufragare sulla direzione generale delle manovre militari, in un contenzioso che ha visto (fino al martedì scorso) al centro della contesa la Francia su posizioni di forte protagonismo, mentre la Farnesina ha richiesto di rimettere il comando delle operazioni in mano alla Nato. La Lega Araba intanto mette in discussione le modalità applicative degli obiettivi previsti dalle direttive internazionali.
Oggigiorno, dunque, in opposizione alla recente decisione di rimandare alla Nato lo svolgimento delle manovre, urge semmai un coordinamento regionale delle operazioni di pace, che riguardino gli eventuali accordi stabiliti in materia di intervento umanitario fra i Paesi europei, l’Unione Africana e la Lega Araba – tramite la comunicazione e sotto il controllo e l’autorizzazione del Palazzo di Vetro – che impegnino le organizzazioni internazionali interessate a rispettare prevalentemente il sostegno della popolazione civile dal pericolo rappresentato dai crimini contro l’umanità e, pertanto, dalla violazione dei diritti umani. In secondo luogo il coordinamento regionale, specie con il coinvolgimento di Ciad e Mauritania, può rilevarsi strategicamente positivo per isolare il Rais libico dal corridoio meridionale (tuttora aperto).
Qualunque iniziativa intrapresa in attuazione della risoluzione deve essere coerente con gli obiettivi. Occorre spegnere quindi l’incendio e non alimentarlo ulteriormente, bisogna proteggere i civili e non esporli a una nuova spirale della violenza e terrore. Gli stati che si sono assunti la responsabilità di intervenire militarmente non possono permettersi di perseguire obiettivi diversi e devono agire con mezzi e azioni coerenti sotto il “coordinamento decisionale” dell’Onu previsto dalla Risoluzione 1973.
D’altra parte, contromisure di tipo prevalentemente diplomatico al momento non sembrano praticabili vista la indisponibilità del regime libico. Per cui rimane l’applicazione coercitiva del diritto internazionale che continua ad essere la via più consona, stando a quanto rinvii la risoluzione al Titolo VII della Carta ONU. Se la ‘no-fly zone’ non risulti sufficiente a garantire la protezione dei civili dal ricorso alla minaccia e alla violenza – mentre continuano a non sussistere margini di negoziazione o di mediazione – l’azione coercitiva dovrebbe coinvolgere interamente gli organismi dell’ONU e avviare altre modalità d’intervento a favore del mantenimento della pace.
L’esperienza ereditata così dai conflitti civili degli anni Novanta ci mostra che il dispiego delle forze d’interposizione Onu – con il coinvolgimento dei caschi blu – riguarda un nuovo modo d’intervenire attivamente nei conflitti, in una situazione che vede distrutte le strutture giuridiche e politiche dello Stato interessato e la cui popolazione abbia patito gravi violazioni dei diritti umani. Pertanto le operazioni di supporto logistico e il persistere della comunità internazionale faciliterebbero il disarmo delle milizie; supervisionerebbero i processi elettorali di democratizzazione del Paese e promuoverebbero la ricostruzione dei servizi basilari dell’economia interna, includendo la ricostruzione delle infrastrutture attraverso aiuti e reinserendo il sistema-Paese nel circolo delle relazioni internazionali. Ma questa rimane una ipotesi.
I miei commenti non travalicano, allora, il contenuto e gli obiettivi previsti dalla risoluzione Onu, come peraltro sta criticando anche la Lega Araba in merito alla sua attuale applicazione.
Sono d’accordo – già come fu in Libano – nel tener fuori il comando della Nato dalle operazioni in corso, al fine di stabilire un coordinamento europeo e gli accordi regionali che si incarichino di far osservare gli obiettivi posti in essere dal Consiglio di Sicurezza e sotto la sua sorveglianza, piuttosto che trasferire la gestione delle operazioni verso un’organizzazione con fini militari.
Certo è che se lo scenario si evolva in meglio, sarebbe possibile organizzare una interposizione volta ad accompagnare la Libia verso il processo di pace e infine il cessate il fuoco. Il problema tuttavia è sempre fermo:
Negoziare, ma con quali concessioni?
L’oggetto della negoziazione sarà di carattere politico o commerciale?
E quale dei due casi sarà quello più efficace per il mantenimento della pace e della coesione nazionale?
Oltre questi interrogativi non oso spingermi…
Va sottolineato che, comunque, in caso di interposizione, la risoluzione andrebbe modificata o si dovrebbe procedere ad una nuova seduta del Consiglio, poiché la 1973 esclude un intervento di questo tipo. Inalterati rimarrebbero gli obiettivi: il cessate il fuoco e il sostengo umanitario.
I parametri che ritengo leciti ed opportuni restano quelli della Convenzione di Ginevra. Qualsiasi abuso dell’intervento militare che comprenda la distruzione strategica di strutture civili o un mancato impegno umanitario, è da condannare nel modo più assoluto.
Durante l’ultima settimana la situazione è precipitata ulteriormente con l’arrivo delle truppe lealiste nella Cirenaica. E’ stato giusto e doveroso deliberare la Risoluzione 1973 proprio per evitare che la ribellione degli ultimi mesi venga soffocata a danno dei civili coinvolti, con il rischio che da qui partano operazioni di “pulizia politica”, un irreversibile inasprimento dei rapporti diplomatici ed energetici con l’Italia e una più generale caduta degli equilibri geopolitici nel Magreb.
Va fatta ora un’ulteriore precisazione. Dal punto di vista italiano l’interesse reale non deve rappresentare la centralità della questione petrolio/gas, bensì l’urgenza di rivedere le nostre politiche industriali e i settori in cui si è investito all’estero, perchè è su questo frangente che si scommette lo sviluppo economico dell’Italia di domani. Per spendere meno investimenti in Libia, sarebbe bastato investire di più sui rigassificatori italiani. E se ci lamentiamo del prezzo della benzina, non è certamente la risoluzione Onu a definire il costo delle accise per ogni litro di carburante. Idem sulla scarsità di trasporti su rotaia ecc…
La crisi libica è, anzitutto, la crisi della struttura economica e produttiva italiana perchè manifesta le storture e l’incapacità della politica di investire sulla trasformazione del nostro assetto produttivo e, di conseguenza, di rivedere l’organizzazione del lavoro.
Questa vicenda evidenzia la fragilità delle relazioni estere italiane e i pericoli a cui ci espone la nostra politica energetica. La precarietà del fabbisogno energetico è prima di tutto un problema strutturale dell’economia e del nostro modello produttivo. Viene confermato allora il nesso fra lo sviluppo economico e la garanzia delle libertà democratiche e della pace, in quanto la garanzia sui nostri affari è data dall’affidabilità dei vari partner commerciali.
Nel caso libico il problema è stato concludere affari con una dittatura che già commetteva crimini sui rifugiati politici, con lo scopo onorevole di metter fine alle tensioni diplomatiche (storiche) fra Italia e Libia. Quindi a priori si è dimostrata una manovra politica criticabile in quanto priva di strumenti di garanzia e a spese dei migranti. Mentre ancora non sappiamo come l’Italia salverà la faccia dopo tre anni di politica estera condotta in questo modo…
Demi Romeo_22 anni per adesso. Rompiballe dichiarato e cinico osservatore della società politica di regime, ormai è vittima delle incresciose fasi di mobilità internazionale che lo costringono all’asilo politico presso le sezioni socialiste d’oltralpe. Calabrese sofisticato, stranamente non va pazzo per la ‘nduja.
Commenti recenti