[150 e non sentirli!] Il mio diletto è bianco, (verde) e vermiglio
venerdì 25 marzo 2011 | Scritto da Alessandro Porcelluzzi - 2.129 letture |
L’Italia è giovane. 150 anni per uno Stato sono poco più che un’infanzia. Aveva da poco superato il mezzo secolo di vita quando fu divorata dall’idea fascista di rinverdire i fasti della Roma imperiale.
L’Italia è stata poi a lungo divisa, nella sua storia repubblicana, tra cattolici e comunisti. La Chiesa e il comunismo: due grandi religioni universali. E, in quanto tali, antinazionali, a-patriottiche.
Anche sulla Resistenza la memoria italiana è tutto fuorché condivisa. Fino a poco tempo fa una parte degli Italiani (oggi sempre più minoritaria) rivendicava l’orgoglio repubblichino. Come se in Francia qualcuno esaltasse Vichy…E nel campo antifascista ciascuno rivendicava a sé la totalità della guerra di liberazione. Il mito rosso della Resistenza tradita (cioè di una resistenza che avrebbe dovuto condurre al comunismo invece che alla democrazia) ha resistito, mi si perdoni il gioco di parole, a lungo. Ed è stato foriero di sciagure.
In questo momento è certamente un esempio politicamente scorretto. Ma valicate le Alpi si incontra un Paese profondamente diverso. I Francesi sono forse l’esempio più chiaro di senso della nazione. Che il loro sguardo, a seconda degli orientamenti, guardi alla Gironda, al Terorre o al Termidoro, a Napoleone o alla Comune, a De Gaulle o a Mitterand, il senso dell’appartenenza alla nazione è fondamento della vita collettiva. E quello spirito nazionale si nutre delle battaglie di avanguardia (qualcuno ricorda ancora il Maggio francese?). Sarà una strana coincidenza della storia che oggi i ribelli a Bengasi si ritrovino a sventolare il tricolore francese?
Ho aiutato una mia alunna, dodici anni, a svolgere un tema sul sentimento nazionale. Cos’è il sentimento nazionale? Quali elementi lo compongono?
La lingua, certamente. Anche in questo l’Italia è giovane. Il fiorentino di Dante, di Petrarca e Boccaccio, l’Arno in cui molti secoli dopo Manzoni andò a lavare le riedizioni del suo romanzo, a lungo ha convissuto con i dialetti. Fu la televisione a uniformare la lingua. Pasolini pianse la progressiva scomparsa dei dialetti e delle inflessioni regionali. Infine arrivarono il Grande Fratello, Uomini e donne e quel crogiuolo di romanesco e slang che cancellò l’idioma italico.
L’inno e la bandiera. Il tricolore che ha attraversato era napoleonica, esperimenti repubblicani e tutto il Risorgimento; l’inno di Mameli, un ragazzo caduto anch’egli nel corso dei moti che incendiarono la prima metà dell’Ottocento dello Stivale. Nemmeno il fascismo riuscì ad archiviare il tricolore. Diversamente da quanto avvenne in Germania in cui, dopo la lunga contesa tra l’oro e il bianco durante la Repubblica di Weimar, Hitler pensò bene di sostituire il tricolore con la croce uncinata. Cos’è rimasto di questi simboli? Il più grande venditore di fumo della storia repubblicana. Silvio Berlusconi, chiamò il suo partito Forza Italia e utilizzò come stemma un tricolore. Ma pensava, come la gran parte degli Italiani, alla nazionale di calcio, non alla nazione.
C’è poi l’Italia dell’arte, della cultura. Una nazione policentrica nello spazio e nel tempo. Roma certamente, ma anche Milano, Firenze, Napoli. L’Italia dei Comuni, ma anche quella delle Signorie. Proprio per questo ogni tentativo di rievocazione patriottica si rivela facilmente retorico. E tuttavia è chiaro anche quanto altrettanto ridicole e prive di verità storiche siano le versioni leghiste o neoborboniche della storia dell’Unità d’Italia. Perché esiste forse un unico filo rosso che attraversa i secoli della storia d’Italia: un movimento senza alcun centro propulsore che ha avuto come obiettivi polemici il controllo (diretto o indiretto) straniero e i regimi interni meno evoluti in senso democratico. In questa chiave è possibile recuperare all’identità nazionale un discorso che unisca il Risorgimento e la Resistenza. Non possono non risuonare le parole e i gesti di un Presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Che è esponente di una cultura politica minoritaria sul piano elettorale. Ma decisiva in sede intellettuale e morale: l’azionismo. Non a caso le prime ed entusiastiche adesioni al Manifesto di Ventotene (ripubblicato proprio da Laboratorio) vennero proprio da membri del Partito d’Azione. La patria, l’Italia è un fine quando è occupata, dominata, schiacciata. Ma anche un mezzo, un passaggio intermedio verso una nuova, più democratica dimensione della sovranità: gli Stati Uniti d’Europa.
Alessandro Porcelluzzi, 29 anni, ha studiato senza rimorsi Filosofia. Anarchico prestato alla Sinistra. Si occupa di matti, galeotti, negri e puttane. E ha una gran paura dei cosiddetti “normali”.
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