[E poi c’è l’Europa…] S&L e la politica europea del lavoro
lunedì 20 aprile 2009 | Scritto da Redazione - 2.355 letture |
articolo di Andrea Carnicci
La stucchevole vicenda del cartello elettorale «Sinistra e Libertà» porta simpatizzanti e militanti socialisti a misurarsi in un dibattito politico sterile e vuoto come le componenti di questa lista, che può essere nobilitato solo da riferimenti di carattere politico-culturale anche lontani nel tempo. C’è poi un secondo livello possibile di discussione, già più prossimo del primo alla realtà, costituito dall’analisi delle decisioni, delle prese di posizione e degli atti che i componenti la lista hanno assunto in passati più o meno recenti, quando militavano in altri partiti, magari dentro la stessa coalizione, come nel periodo dell’ultimo governo Prodi. Ci sarebbe poi un terzo livello del dibattito che, per la sua stringente attualità, poco si confà al contesto italiano in genere, portato a svuotare l’agorà dai contenuti per trasformare la politica nel più gigantesco reality trasmesso sul territorio nazionale. Eppure, per non morire di sbadigli, o per un ultimo e disperato sussulto di vita, proviamoci!
S&L si presenta alle elezioni europee. Forse non tutti sanno che questa insopportabile prigione di regole e diritto che è l’Unione Europea non si perita di mettere il becco pure nelle politiche del lavoro, con il rischio di ostacolare prima o poi l’esibizione della reazione sacconiana e della dittatura corporativa berlusconiana in tutto il suo splendore, per mettere nel contempo a nudo il niente proposto dalle opposizioni.
Massimo Pallini su lavoce.info ci fa notare come Corte di Giustizia e Commissione Europea considerino gli ammortizzatori sociali selettivi come aiuti di Stato alle imprese (M. Pallini, Cassa integrazione fra politica e lobby, http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001029.html ). Anche se noi, in questa provincia d’Europa che è l’Italia, non ce ne siamo accorti, pare che l’orientamento dei maggiorenti UE sia quello di privilegiare il sistema di ammortizzatori sociali di tipo universale, considerati in quanto tali, anziché aiuti alle imprese, aiuti alla persona (questa sconosciuta). Qualche settimana fa Pietro Garibaldi e Tito Boeri si sono esercitati, sempre su la voce.info, nel fare i conti su quanto costerebbe la riconversione del sistema italiano di ammortizzatori sociali in senso universalistico (T. Boeri, P. Garibaldi, Ma quanto costa il sussidio unico di disoccupazione?, http://www.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1000994.html . Importantissimi anche i link a pié di pagina).
Tutto ciò porta con sé almeno due considerazioni.
1. Se la crisi riuscirà ad avere una gestione a livello globale nel comparto finanziario da parte degli organismi internazionali e dei consessi della diplomazia, tale modalità di gestione avrà ricadute anche nel settore produttivo, e con esso in quello delle politiche del lavoro, ammortizzatori compresi. Seppur con la scarsa influenza che l’Europarlamento può vantare, appare oggi abbastanza impensabile che questa degna istituzione non si ritrovi presto a deliberare qualcosa, magari al vento, in fatto di politiche del lavoro.
2. Nonostante le elezioni europee siano, almeno da noi, un mega sondaggio da centinaia di milioni di euro, e un modo per finanziare in varie forme le segreterie dei partiti, la conseguenza di tutto ciò è che qualcuno andrà ad occupare i seggi che l’Unione assegna all’Italia. Ora, anche solo per salvare le apparenze, sarebbe il caso di ingannare il tempo da qui a giugno discutendo di qualcosa. Magari di politiche del lavoro?
Da ciò consegue che forse, se avanza del tempo, sarebbe il caso che l’argomento in questione venisse affrontato anche dentro il recinto di Sinistra e Libertà, dove le posizioni non sono un esempio di idee chiare e coerenza programmatica, tanto per sapere cosa diranno e come voteranno gli onorevoli deputati sinistri e liberati (se ce ne saranno) nel caso in cui a Strasburgo venga chiesta loro una posizione in proposito. Il precedente più prossimo su questioni di lavoro è noto e risale all’ultima finanziaria del governo Prodi, quando i socialisti presentarono un pacchetto di emendamenti socialisti, cui l’estrema sinistra oppose una serie di affossamenti di estrema sinistra, in cui militavano anche gli attuali compagni di lista.
Questo non fa dei socialisti un gruppo politico in possesso di programmi e studi chiari e ben definiti sul tema. Tuttavia la ben argomentata battaglia per la flexecurity che alcuni di loro hanno combattuto, fa pensare che nella famiglia della rosa, chi alla politica è interessato, guardi con un certo favore all’eventualità di sostituire l’attuale sistema italiano di ammortizzatori sociali con un modello universale orientato verso aiuti alla persona, anziché ai corpi sociali.
Sulla sponda ex comunista e verde invece, l’invocazione di non meglio definiti sussidi di disoccupazione abbinata alla difesa della cassa integrazione straordinaria e al fiancheggiamento verso la politica corporativa dei sindacati in generale e della CGIL in particolare, fa pensare che tali individui non sarebbero così disposti a mettersi ad un tavolo con l’élite degli economisti liberali di questo paese per fare i conti su costi, reperimento risorse, modalità di accesso ai servizi di sostegno, definizione degli aventi diritto, procedure e tempi di erogazione nel contesto di un sistema universale di ammortizzatori sociali.
Un’operazione come questa comporterebbe la messa in discussione di capisaldi ideologici rimasti in piedi anche senza ideologia, come la tradizionale cancellazione dal vocabolario della parola licenziamento e la drastica perdita di potere di mediazione di corpi sociali come i sindacati, oggi legittimati a rappresentare una parte del tutto, anche se fermamente (ed inevitabilmente) intenzionati a tutelare gli interessi del grosso degli iscritti (dipendenti pubblici, metalmeccanici, pensionati). Qualche sinistro e liberato non socialista potrebbe anche concordare sul fatto che gli ammortizzatori selettivi, in quanto aiuti di Stato alle imprese, sono un formidabile strumento di potere nelle mani del governo e dei corpi sociali ad esso affiliati, se non sapesse che questa è la tesi di quel liberalaccio di Tito Boeri. Sapendo che vengono oltremodo lodati da Brunetta, potrebbe anche vituperarli, dimenticandosi momentaneamente che la CGIL vive di tale strumento di potere.
Ed ecco le domande finali: sarebbe meglio aprire il dibattito nell’ancora formalmente esistente Partito Socialista, oppure, nella logica della nuova fratellanza, aprirlo direttamente dentro la lista con i socialisti in ordine sparso?
Ma soprattutto, è meglio imbarcare lista, partito, o quel che c’è, dentro un interessante e urgente dibattito intorno alla crisi economica e alle politiche sul lavoro, oppure è meglio prendere Boeri e i pensatori liberali, la Corte di Giustizia e l’Unione Europea tutta, più qualche milione di lavoratori, e mandarli urgentemente a quel paese?
Come la mettiamo?
il problema non si pone perchè:
1) non hanno voluto trasformare SeL in un progetto politico che ridiscutesse le Verità dei singoli gruppuscoli partitocratici
2) SeL non prenderà i voti sufficienti per andare in Parlamento
3) quel che rimarrà non è sufficiente per fare un movimento politico
detto altrimenti:
1) non hanno cuore
2) non hanno cervello
3) non hanno le spalle robuste
praticamente sono degli ectoplasmi
dannati ad andare nel PD , tra i vendoliani e qualcuno persino nel PdL .
Ah Filomeno Viscido … e pure meno eh!
attento che a trentacinque anni e con lunga vita nel partito non si sarà più giovani outsider ma dirigenti affermati e compassati di partito… ed allora si dipende dalla consistenza del partito .
saluti
Filomeno Viscido
il socialista eretico
p.s.
Tommà complimenti per il rispetto della privacy
Ok, starò attento.
Nel frattempo firmare con nome e cognome i propri commenti credo continuerà ad essere cosa corretta.
oh senti questa poi. …..
ho sempre firmato con \”socialista eretico\” (persino gli articoli) e non vi è stato alcun problema finora.
la richiesta, che ritengo di aver ampiamente rispettato , era quella di non essere anonimo e di fatti non lo sono
visto che compare , alla Redazione, la mail con nome e cognome.
l\’attegiamento scorretto è nel citare il mio nome e cognome pubblicamente di punto in bianco.
se il nick non ti andava bene , avresti dovuto pensarci in altri tempi e non durante uno scontro dialettico.
E la mia irritazione – sia chiaro – nasce solo per l\’aver visto la scortesia da parte tua
dato che le posizioni espresse e i partiti criticati non sono certo cosa di cui dovermi preoccupare (ho firmato ben altre contestazioni) .
per dirti il livello: oggi Storace ha tenuto sul suo blog lo stesso tuo attegiamento contro un suo avversario politico .
Io sono scortese
semmai, in ambito socialista, si direbbe che sei stato komunista
In effeti sto giusto ora rosicchiando stinchi di dodicenni.
devo fare i miei complimenti ad andrea, l’articolo è veramente fatto bene a mio parere. dato atto vo’ per punti. mi sintonizzo a ciuffoletti essendo io lucano.
ammortizzatori di tipo universali: “A seguito dei profondi mutamenti intercorsi nell’organizzazione dei rapporti e dei mercati del lavoro, si ritiene che sia ormai superato il tradizionale approccio regolatorio, che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo, il lavoro nella grande impresa al lavoro in quella minore, il lavoro tutelato al lavoro non tutelato. E’ vero piuttosto che alcuni diritti fondamentali devono trovare applicazione, al di là della loro qualificazione giuridica, a tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi: si pensi al diritto alla tutela delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, alla tutela della libertà e della dignità del prestatore di lavoro, all’abolizione del lavoro minorile, all’eliminazione di ogni forma di discriminazione nell’accesso al lavoro, al diritto a un compenso equo, al diritto alla protezione dei dati sensibili, al diritto di libertà sindacale. E’ questo zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali che deve costituire la base di un moderno “Statuto dei lavori”.
poi mi fa piacere incollare altro del Libro Bianco di Marco Biagi.
“È davvero urgente creare le condizioni perché si elevi la qualità della nostra occupazione, stimolando maggiori investimenti in risorse umane assunte in forma stabile, a tutto vantaggio di una crescente fidelizzazione, produttività, creatività e, quindi, qualità, della stessa forza lavoro. Occorre dunque incentivare convenientemente il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato, così da incrementarne l’uso, evitando, nel contempo, che si diffondano forme di flessibilità in entrata per aggirare i vincoli o comunque le tutele predisposte per la flessibilità in uscita”.
scusate il copia e incolla ma lo ritengo interessante.
“Si dichiara a tale proposito di riconoscersi pienamente nel principio del “licenziamento giustificato”, peraltro ora solennemente proclamato nella Carta di Nizza dell’Unione Europea. Il modello sociale europeo deve certamente essere modernizzato, ma non è assolutamente revocabile in dubbio la regola fondamentale per cui atti estintivi del rapporto di lavoro devono essere giustificati e motivati dal datore di lavoro, nonché sottoposti eventualmente al vaglio di un’autorità indipendente. Fin dal 1966 questa fondamentale acquisizione fa parte dell’ordinamento giuridico italiano e si dichiara di ritenerla definitivamente acquisita. Del pari deve ritenersi consolidato il regime attuale in connessione con i divieti del licenziamento discriminatorio, del licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio e del licenziamento in caso di malattia o maternità, tutte ipotesi che restano completamente estranee alla riflessione in atto”.
e infine
“Si ritiene che, per valorizzare appieno il capitale umano, presente nel nostro Paese debba essere creato un quadro istituzionale più favorevole all’utilizzazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Occorrerà procedere ad un attento monitoraggio dell’utilizzazione di tipologie contrattuali diverse, al fine di rilevare eventuali spinte verso un’eccessiva precarizzazione del nostro mercato del lavoro. Nel contempo si ritiene debbano essere studiate nuove forme di incentivazione nell’uso del contratto a tempo indeterminato – con particolare riguardo alla trasformazione del contratto a termine- e chiede in particolare modo alle parti sociali di confrontarsi su questo argomento, accertando l’eventuale esistenza di ostacoli normativi che frenino il ricorso a questa tipologia contrattuale, senz’altro fondamentale per garantire una società attiva basata sulla qualità del lavoro”.
“Si ritiene che sia necessario evitare l’utilizzazione delle “collaborazioni coordinate e continuative” in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, ricorrendo a questa tipologia contrattuale al fine di realizzare spazi anomali nella gestione flessibile delle risorse umane. Sarebbero riconducibili a questa tipologia i rapporti in base ai quali il lavoratore assume stabilmente, senza vincolo di subordinazione, l’incarico di eseguire, con lavoro prevalentemente od esclusivamente proprio, un progetto o un programma di lavoro, o una fase di esso, concordando direttamente con il committente le modalità di esecuzione, la durata, i criteri ed i tempi di corresponsione del compenso. Ancorché si richieda la forma scritta, il compenso corrisposto dovrà essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, tenendo conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni analoghe nel luogo di esecuzione del rapporto, salva la previsione di accordi economici collettivi”.
da qui credo si possa cominciare a ragionare e appena riuscirò manderò il mio contributo.
Complimenti per l’ articolo. Credo che la discussione vada estesa (in parte lo fai gia’) dalla politica del lavoro in senso stretto a quella del Welfare. Ho da tempo la convinzione che l’ Europa si fara’anche e soprattutto quando vi sara’ un welfare europeo, che detti criteri di massima e garantisca dei diritti minimi.
Piu’ in concreto, si potrebbe cominciare col creare una piattaforma pensionistica europea cui il cittadino possa scegliere di riferirsi (pagando ad essa i contributi). Questa, se fosse indipendente dal paese di cittadinanza/residenza/lavoro, potrebbe essere una risposta interessante alle esigenze di lavoratori ad alta mobilita’ (che lavorano tre anni in un paese, uno in un altro, due in un altro, prima semmai di stabilirsi per altri venti in un quarto). Idem per altri diritti che vanno “europeizzati”. In generale, non vedo altra strada per cominciare a creare un “popolo europeo” che esiga un referente politico europeo davvero democratico.
Aaaaaaaaaaaah, che brutta cosa eliminare dal vocabolario la parola licenziamento !
Io so solo che se ci fosse libero licenziamento, nella mia città NESSUNO avrebbe più un lavoro, SENZA prospettiv4e di reimpiego, perchè siamo il classico caso, che gli economisti di grido liberali molto in voga a sinistra, per motivi sconosciuti ai più, definirebbero “oligopolio con frangia”. Fallito l’oligopolista, è andata a farsi fottere la frangia, e quasi un terzo degli abitanti campano di CIGS e CIG in deroga. Strumento abusatissimo da una dirigenza cialtrona che ancora non ha presentato un piano industriale, ma non vedo perchè si debba buttare il bambino con l’acqua sporca.
Tra l’altro, a noi che ci piace fare i libbbbbberali che citano Marco Biagi, farebbe bene leggere accuratamente quanto postato poco sopra dal compagno: “Si dichiara a tale proposito di riconoscersi pienamente nel principio del “licenziamento giustificato.” Per una azienda, licenziare quando va male è già oggi possibilissimo, tantopiù che la stragrande maggioranza di esse è sotto i 15 dipendenti e quindi non ha nemmeno bisogno di essere economicamente in crisi per mandare a casa qualcuno.
Discutiamo di come riformare gli ammortizzatori sociali, è giusto e sacrosanto. Però una volta tanto ricordiamoci che venire licenziati in Italia e in Danimarca non è propriamente la stessa cosa. Anche solo perchè per trovare un lavoro in un’altra città in Danimarca avrai da guidare si e no un paio d’ore, da noi ci sono intere zone del Paese che hanno problemi non solo di re-impiego, ma proprio di impiego, cronicamente strutturali.
Ringrazio per i complimenti.
Le parole di Biagi sono quantomai opportune, proprio perchè il suo lavoro ci avrebbe permesso di avvicinarci di più all’Europa.
Manfr, proprio nell’ottica dell’universalizzazione dei diritti dei lavoratori la questione del licenziamento, se affrontata in ottica aprioristica ed ideologica, costituisce un grosso freno. Da un lato l’idea tayloristica del lavoro, che separa in modo netto le funzioni e le figure sociali di datore di lavoro e lavoratore, annullando le problematiche relative alla qualità del lavoro, alla sua funzione sociale, riducendolo ad una questione di padroni che danno due lire a gente che si rompe la schiena; insomma, il modo in cui l’establishment italiano concepisce il lavoro. Dall’altra una realtà tremendamente articolata e sfuggente, tutta da governare. Partiamo da questo presupposto: a lavorare non ci vanno le teorie e i numeri, ma le persone. Ergo, quando si arriva al licenziamento senza giusta causa, significa che, per quanto possa essere stata scarsa, non c’è più margine di collaborazione, anzi, di coabitazione nello stesso ambiente. E allora, se si difende “lo schiavo che si spacca la schiena” dal “padrone”, si fanno le barricate; se invece si vuol mettere il lavoratore nelle migliori condizioni possibili per lavorare, si accetta il licenziamento senza giusta causa (che in realtà la causa ce l’ha: non si possono più vedere! A te rimane simpatico uno che non ti vuole? come ci lavori insieme? sei felice nella tua vita?) ma con un esoso e pesante esborso disincentivante! Così la speculazione economica decade, e si licenzia “senza giusta causa” perchè la scarsa produttività del rapporto lo richiede. Non è tanto la cosa del licenziamento senza giusta causa in sé, è il modo di vedere il lavoro, a cosa serve, che funzione sociale ha, che diritti hanno i lavoratori. Ad esempio, nell’ottica classista che tanto va da noi, tanto il padrone quanto il manager non sono considerati “lavoratori”, e questo comporta sia privilegi inaccettabili che forti disparità. Sul piano delle disparità, ad esempio, ci sono quelli che preferiscono mettere un muro alla propria carriera, perchè passare dal livello più alto di dipendente a quello più basso di dirigente comporterebbe un basso aumento a livello economico e la perdita di un sacco di garanzie. E infatti, con la crisi, abbiamo scoperto il fenomeno dei “dirigenti poveri”. Insomma, il mantra del “no al licenziamento senza giusta causa” è la spia di una mentalità inadeguata, il primo ostacolo ad un sistema di tutela e protezione universali, uno degli alleati della classificazione dei lavoratori in serie A, B, C, Z, e la messa sul piedistallo dei “padroni”. Prendi ad esempio il limite dei 15 dipendenti: non vedi che è ormai un provvedimento concepito per le esigenze dei padroni?
Se guardo al caso che hai esposto e al modo in cui l’affronti.. beh.. quello è un modo per conservare uno stato di cose inaccettabile e cercare di camparci dentro!
Solo mettere tutti sullo stesso piano, dall’amministratore delegato fino al disoccupato, può darci un sistema virtuoso e rispettoso dei diritti individuali.
C’è qualcuno che ha risposte per le domande in fondo all’articolo?
Sì, Andreas, concordo in pieno con te. Però queste cose avresti dovuto scriverle anche nell’articolo 😀
Io porrei un altro interrogativo: a un cinquantenne che perde il lavoro, che risposte diamo, sapendo quando difficile sia reinserirlo nel circuito produttivo ?
direi che il vostro scambio riassume la situazione.
Una sinistra moderna dovrebbe innanzitutto avere chiaro il quadro cosi’ come lo pone Andreas. Da quel quadro dovrebbe elaborare un piano per creare quel sistema di protezione universale dei lavoratori, che non puo’ che essere organico e dettagliatamente illustrato. Altrimenti rischia di beneficiare solo alcuni, creando disparita’ e ingiustizie, o peggio di non essere capito. L’errore e’ gia’ nel fatto che la sinistra si divida tra quella “moderna” che vuole andare nella direzione di una riforma del mercato del lavoro e una che si preoccupa solo delle esigenze immediate del lavoratore che nella transizione infinita tra la situazione attuale e quella futuribile rischia di rimanere fottuto.
Ma l’errore e’ insito nella scissione tra una sinistra dell’oggi e una del domani, una sinistra vive proprio se riesce a coniugare oggi e domani con un progetto di cambiamento credibile. E se la sinistra radicale non si e’ mai posta l’obiettivo e l’ambizione di questo cambiamento credibile, l’ortodossia riformista de noantri non e’ mai parsa particolarmente ferrata nelle tutele per l’oggi, cui corrispondono bisogni inevasi di sicurezza e tutele. Oltretutto la credibilita’ la si conquista anche e soprattutto con la battaglia sul campo per la difesa delle esigenze dell’oggi. Con le battaglia di sinistra piu’ tradizionali. E solo una sinistra che ha ancora gambe e braccia in quell’attivita’ di difesa delle condizioni materiali dei piu’ deboli, ha speranze di risultare credibile.
Il PSI pote’ vincere la battaglia sul referendum della scala mobile anche perche’ aveva la credibilita’ e la capacita’ di spiegare perche’ era necessario non aumentare automaticamente i salari con l’inflazione. Per questo e’ una minchiata solenne che sia possibile di fare i socialisti da destra.
Il punto e’ che fare una sinistra oggi-domanesca, in alte parole socialista, e’ un lavoro maledettamente difficile per cui servirebbero tanto la consapevolezza di Andreas quanto lo spirito di servizio di Manfr, solo ripetuti qualche migliaia di volte.
Siamo soverchiati dalle cose che mancano…
Manfr, già sono grafomane, almeno quando scrivo un articolo cerco di essere più sintetico e circostanziato.
Per quanto riguarda il cinquantenne, la condizione cambia a seconda dei tempi, dei luoghi, del ciclo economico, per cui non credo che la risposta possa essere univoca, però alla base c’è la mobilità sociale. Prima di tutto c’è la “prevenzione”: uscire volontariamente dall’ambito del lavoro dipendente per aprire bottega, forti della propria esperienza. In un paese come il nostro, quello delle partite iva, la mobilità sociale c’è stata, ma solo in quei tempi ormai remoti di quando eravamo in crescita! Dopo ha vinto il classismo e lo schiavismo, e anche le partite iva e le pmi sono diventate sempre più esternalizzazioni del ciclo produttivo per comprimere i costi.
E poi, diciamoci la verità: magari non tutti, ma alcuni si possono anche rompere le palle a fare lo stesso lavoro nello stesso posto per una vita! La possibilità di mettersi in proprio mi sembra un giusto premio per chi si è spremuto per trent’anni. Certo, occorre un sistema che assecondi un processo del genere: la formazione continua, tariffe professionali (penso ai commercialisti) basse, tasse basse, sburocratizzazione (il famoso 7 giorni per un’impresa), prezzi degli immobili per fini commerciali e industriali bassi, banche non più strozzine, infiltrazioni criminali basse… E allora anche andare in pensione a 65 anni sarebbe meno pesante.
Se lo stato riprendesse in mano la politica del lavoro, magari potrebbe inaugurare politiche in questo senso nell’ambito di quelle della formazione, del ricollocamento, della consulenza verso il disoccupato. Ma sappiamo tutti cosa sono le agenzie per il lavoro oggi!
Ancora: l’esperienza di un cinquantenne potrebbe essere spesa in un ambito diverso, che è appunto quello della formazione. Ma alle aziende di migliorare il prodotto, o di tenerlo su buoni standard qualitativi, non sempre interessa, e la formazione della manodopera è sempre più secondaria. La rivalutazione della qualità, e quindi della formazione, è fondamentale. Quello che frega gli operai cinquantenni è la scarsa qualificazione del loro lavoro: un brodo di ingegnere si ripiazza sempre, non foss’altro che con compiti di consulenza. Ecco… bisogna “universalizzare”, e fare in modo che un lavoratore sia un lavoratore, che opera in un contesto in cui sono assecondate le sue qualità, operaio, impiegato o ingegnere che sia.
Uno lo spirito d’iniziativa, se non ce l’ha, lo può acquisire se ci sono i mezzi intorno a lui, l’ambiente che lo induce a farlo. Se vivi da Roma in giù, tutto diventa più difficile; se hai un’iniziativa vieni fatto fuori!
In questo modo intanto togli dalle peste tante persone prima che arrivino le burrasche. Poi, per tutto il resto, c’è l’assegno di disoccupazione alla scandinava, con una bella percentuale sull’ultimo stipendio, magari modulato in relazione agli anni di lavoro, alla situazione familiare, sperando che uno, a cinquant’anni, viva da solo o con la propria moglie/o compagna, senza dover mantenere figli. E corroborato da una buona politica di riduzione di prezzi e tariffe e inflazione bassa. Insomma, una specie di pensione baby, ma con la possibilità (e l’obbligo alla terza offerta) di tornare al lavoro. Non è la realizzazione dei sogni di una vita, ma come paracadute credo sia accettabile.
Ma ci vuole uno Stato! La flexecurity in danimarca non la fanno le agenzie interinali e le cooperative!
Plex sai qual è il problema? Guardare, e far guardare le persone, un po’ più al di là del proprio naso. Altrimenti la ricetta rimane sempre quella di sopravvivere in una condizione miserrima, tenere le aspettative sottoterra, adeguarsi all’andazzo, e quindi rinegoziare sempre al ribasso. In una parola perdere. Ma non perdere le elezioni da parte della “sinistra”, ma perdere il senso e il valore delle cose da parte delle persone.
Rimango dell’idea che la politica del lavoro propriamente detta sia secondaria: se c’è legalità e stato di diritto, un buon sistema bancario, concorrenza, un buon sistema formativo, la politica del lavoro viene da sé di conseguenza. Se i lavoratori vengono tenuti piegati sull’ultima busta paga (o sulla sua assenza) e sul pacco delle bollette, addio politica del lavoro! Vince lo schiavismo. Il primo passo è dare A TUTTI un assegno di disoccupazione con cui si possa vivere, anche in virtù di tariffe e prezzi bassi, così che possano alzare il naso dai problemi di sopravvivenza.
Sto pensando alle energie sprecate a livello di mobilitazione sindacale negli ultimi 15 anni. Hanno fatto casino per un sacco di cose, dall’art.18 ai contratti collettivi, meno che per una politica di welfare e di ricollocamento decente!
guardate … io continuo sul filo di biagi. se si dibatte sull’articolo 18 a mio avviso si cade nel vuoto. mi spiego, le micro imprese sono quelle con meno di 10 lavoratori, rappresentano il 94,9% delle imprese italiane e occupano il 48% dei lavoratori, quindi, di cosa parliamo, parliamo del “nanismo italiano”.
ho 20 imprese che operano integrate tra di loro nello stesso ciclo produttivo, tutte con 14 dipendenti, addio art.18 e discussioni simili.
la domanda che io mi pongo è se sia giusto far firmare dimissioni in bianco, lincenziare o discriminare un lavoratore, aver paura di rimanere incinta, avere un compenso equo, un accesso al credito e via di seguito.
io seguo biagi e la carta di nizza, mi spiace, il licenziamento facile so già cosa produce.
favorire convenientemente il ricorso al contratto a tempo indeterminato vuol dire agire fiscalmente sul costo del lavoro.
ma siamo un paese con poche risorse e rinunciare a queste entrate fiscali diventa difficile. allora che si fa? si fa che si agisce sul costo del lavoro usando in maniera frodatoria i contratti a progetto.
Al congresso della fgs er c’è stato un intervento di un ragazzo che in risposta alle dichiarazioni di Sacconi sul fare lavori umili diceva “io sono disposto a fare lavori umili e a spaccarmi la schiena ma mi chiedo 650 euro al mese ma quanto è umile” ecco io di questo voglio preoccuparmi.
provate a pensare all’uso corretto del contratto a progetto, nessun vincolo di orario potendo gestirsi il tempo e magari lavorare per più aziende aumentando la propria professionalità e per forza di cose formandosi continuamente, un compenso equo non inferiore a quello di un dipendente con le stesse mansioni, avere un adeguato accesso al credito sostenuto da un fondo di garanzia su base regionale, poter utilizzare le strumentazioni dell’azienda dove si presta lavoro senza doverne comprarne delle proprie.
è la liberazione del lavoratore, del lavoratore che senza mezzi e senza sostegni può scegliere di realizzarsi e migliorare la sua condizione sociale ed economica contando solo sulle sue capacità perchè è favorito da un quadro normativo certo. a quel punto sai quanto me ne frega della malattia, dell’art. 18 e pippe simili.
tutto questo avendo ben presente che questa è una scelta in più che il lavoratore può fare e che il lavoro a tempo indeterminato è quello su cui convenientemente bisogna investire.