[Barackopolis] Gianni, se tu Obama ed io …
lunedì 6 ottobre 2008 | Scritto da Plex - 2.308 letture |
La festa del partito terminata pochi giorni fa a Vieste non era cosa da tutti. Vuoi perché le vacanze sono ormai finite per tutti, vuoi perché arrivare comporta una notevole sfida alla propria pazienza su e giù per il promontorio del Gargano, vuoi perché il movimentismo richiede tempo e denaro che non tutti hanno.
Fattostà che delle duecento persone che hanno affollato in media il padiglione adibito a sala congressi, si registrava una notevole presenza giovanile, stimabile in una quarantina di unità,
e visto e considerato che, a differenza dei giovani rampolli del socialismo della seconda repubblica, gli oratori della manifestazione erano finanziati dal partito, la folta schiera di under 30 rappresenta essa stessa un motivo di speranza e orgoglio.
Lo stesso deve avere pensato il sempiterno Gianni De Michelis, una delle più vivaci e brillanti intelligenze politiche degli ultimi 30 anni, uno che al socialismo e all’Italia ha dato tanto avendone ricevuto in cambio tantissimo.
Reduce dal dibattito sul lavoro nel quale aveva appena avuto modo di sciorinare tutta la propria affascinante e preziosa ars retorica (non immune dai consueti ammiccamenti alla “destra di Tremonti che ci ha scavalcati a sinistra”), l’ex Doge decideva di intrattenersi per una chiacchierata con un nugolo di giovini di cui, per discrezione, tacerò i nomi.
Lo spunto di partenza è stato il suo voler curiosare nella per lui inspiegabile contraddizione di una generazione, la nostra, fottuta alla grande da quelle che l’hanno preceduta e tuttavia incapace di reagire, di organizzarsi per una salutare ribellione contro i padri e i nonni.
Se volessimo, ma non vogliamo, ragionare in termini marziani, diremmo che la nostra generazione è una classe, un gruppo sociale, in sé ma non per sé. Se però, come a noi è capitato, questa spiegazione non è pronta all’uso dinanzi al cospetto dell’autorità, non vi resterebbe che coprirsi, come noi abbiamo fatto, dietro alla terribile complessità di un mondo dalle mille sfaccettature di cui abbiamo serie difficoltà a farci un’idea complessiva, figurarsi a costruirci sopra movimenti e rivoluzioni.
Bene si capisce però, conoscendo l’indole vulcanica dell’uomo e i suoi trascorsi ai massimi livelli della politica estera italiana, come il passo dalle nostre prospettive politiche a quelle della Cina e più in generale del mondo sia assolutamente breve.
Il crollo dell’ordine economico-finanziario del mondo avvenuto a Wall Street poco più di una settimana fa apre infatti numerosi interrogativi sul futuro della superpotenza, decretando di fatto la fine del mondo unipolare degli ultimi 20 anni. E’ ora il tempo globalizzato della Cina, dell’India, del Brasile e chissà di chi altro ancora.
Ma se il radioso futuro del gigante cinese è garantito dalla sua florida demografia (la rivoluzione industriosa figlia del confucianesimo che duecento anni dopo quella industriale si manifesta nella sua grandezza…), la stabilità del suo sistema politico è data dal fatto che adesso e per molto tempo ancora la stragrande maggioranza dei cinesi sarà troppo impegnata nel tentativo di arrivare al successo per mettere in discussione il regime. Un regime che con Deng Xiao Ping ha per la prima volta dopo migliaia di anni di civiltà cinese spostato la questione dalla scelta tra lo “sfangarla” e il “morire di fame” a quella tra il “farcela” e lo “sfangarla”. La Cina viaggia e continuerà a viaggiare del mastodontico drift dovuto all’entusiasmo e all’ebbrezza per questa epocale novità che ha permeato tre generazioni di cinesi.
Ma la fine del dominio assoluto degli yankee traspare anche dalla loro evidente incapacità di controllare il mondo, fidandosi e incoraggiando l’incauto Saakasvhili che da agio alla Russia di porre un argine all’occidentalizzazione dell’ex Urss (si pensi anche alla fine della coalizione antirussa in Ucraina). Incapacità che risulta evidente anche dallo stridente contrasto tra un Iraq che procede spedito verso la pacificazione a fronte di un Afghanistan sempre più instabile che gli americani rischiano di perdere perché non controllano più l’adiacente Pakistan (a proposito qualcuno chieda conto ai nostri incauti governanti perché tra Iraq e Afghanistan le truppe le abbiamo mantenute solo nel posto più pericoloso…).
Poco da dire sull’Italia, irrilevante nel panorama internazionale e fanalino di coda di un Europa che non può competere con la moltitudine cinese, il cui devastante effetto sul benessere occidentale è la vera scommessa su cui l’opzione socialista costruirà il suo futuro da noi.
Le parole fluiscono rapide ad incorniciare una piccola lectio magistralis di politica estera, che tratteggia con pennellate rapide ma decise l’orizzonte prossimo degli equilibri politici mondiali.
Sono possibili solo due schemi, che trovano nell’efficiente sistema politico americano immediata rappresentazione nelle posizioni dei due candidati allo scranno presidenziale.
Ed ecco emergere la contrapposizione tra lo schema multipolare di Obama che punta a rinegoziare il controllo del mondo con tutte le potenze emergenti in una cornice di reciproco rispetto e vicendevole concorrenza. E’ la scelta difficile, complessa come la geopolitica mondiale dell’era globalizzata, che richiede energie e capacità che la superpotenza a stelle e strisce non è sicura di trovare nel giovane senatore dell’Illinois. Ed è così che McCain va ad incarnare la seconda prospettiva, quella della Lega delle democrazie, lo schema ideologico con cui cesellare un nuovo ordine mondiale fondato sulla contrapposizione sino-americana, una soluzione inevitabilmente più semplice e perciò stesso forse meno adatta a un mondo ormai completamente interdipendente.
Ma che questo lo dica un socialista obamista come chi scrive, poco importerebbe ai più, se non fosse che una battuta di uno degli astanti dà modo al buon Gianni di dichiarare la propria propensione per Barak Obama, il negretto che sfida il vecchietto, insieme alle paure e alle incertezze del paese più grande del mondo.
La sfida di Obama è allora dunque la sfida di un paese cui hanno sottratto lo scettro e deve ricominciare a pensarsi in un mondo che non è più ai suoi piedi. Se ci riuscirà lo dirà la storia. Intanto Gianni (e io con lui) sta con Obama.
Tag: alla destra di tremonti, Barack Obama, brasile, candidati elezioni presidenziali, cina, deng xiaoping, elezioni usa, gianni de michelis, india, john mccain, presidenziali americane, Russia, saakasvhili, senatore illinois
andrea andrea.. il buon Marx è una lettura ancora utile, come perfino D’Alema sembra sospettare (noi e Tremonti sospettiamo che lui non l’abbia capito, però).
è vero che non siamo una classe “per sè”, ovvero con spirito e coscienza di classe. ma la domanda è se siamo, o no, almeno una classe “in sè”, e la risposta dipende secondo me da qual è il problema.
in che senso e perchè “ce l’abbiamo nel culo”? io credo che ha ragione Gianni, sì, ce l’abbiamo lì, ma non è che il problema possiamo liquidarlo con la “terribile complessità”, nonostante la lezione di politica internazionale fosse obiettivamente stimolante e affascinante.
il lato positivo è che prima o poi i nonni e i padri muoiono, quindi sarà la natura ad arrivare lì dove noi non riusciremo..
bentornato Labouratorio, ma il ciuffolo s’era stancato?
ben trovato Carletto.
Ma io sono d’accordo con te, non possiamo assolutamente liquidarlo con la terribile complessità il fatto di essere o meno, una classe in sè.
E’ solo la prima cosa che avrei risposto a Gianni.
Non ho studiato abbastanza Marx (diciamo che non l’ho studiato per nulla) quindi non lo so se siamo una classe in sè. Però se il problema di questo paese è, ed io penso che lo sia, la classe dirigente, i “maestri” per così dire, allora questo è un problema che riguarda più la dicotomia “esclusi-garantiti”. Cio non toglie che anche i “giovani esclusi” sono anch’essi un insieme numericamente rilevante e forse non del tutto disomogeneo. Ora non resta che trovare il manuale che spiega come si risveglia una coscienza collettiva. Mi dicevi, in quel di puglia, che Marx sentenziava non esserci speranza…
“Non ho studiato abbastanza Marx (diciamo che non l’ho studiato per nulla)”
Male, male, molto male! 😀 😀
vabbè a scuola a filosofia l’avevo studiato. intendo dire che non l’ho approfondito.
aaaappunto! hihi
che vuoi farci credere che lì a duemiladodici leggete Marx?ma per favore…
noi di duemiladodici ci incontriamo ogni due settimane alle terme di casciana e organizziamo grandi dibattiti filologici, filosofici, e politici, su questo o quel passo di questo o quel libro del “Das Kapital” ! 😀
ferrero non è invitato.
neanche vendola.